Magazzino 18. Parte III

Magazzino 18. Parte III

Pagine strappate, un armadio colmo di vergogna e disperazione. Una barbarie occultata. Un graffio sul cuore. La caccia agli Italiani. Le mani legate col fil di ferro. I ricordi piangenti e commossi di un uomo adulto, che riporta alla memoria il dramma vissuto a nove anni. Persone stipate nei camion, di notte. Animali al macello. Uomo morto che cammina. Un’odissea senza fine. Il muro di Gorizia. Il memorandum di Londra e la Zona B. Il Cuore nel Pozzo, Magazzino 18 e Red Land. La cultura e l’ignoranza. Il passato e il futuro. La scuola e la storia. La vecchia e la nuova generazione, che si rincorrono e si avvicendano.

Figli e nipoti.

Delle attese e delle speranze. Di chi ha cercato e creduto di poter essere riconosciuto e ricordato e di chi è morto fisicamente e moralmente, sentendosi ingannato e umiliato. Di coloro che si sono ritrovati in determinati valori e per questo riuniti in associazioni, le quali hanno portato avanti nel tempo ideali e richieste. Come l’Unione degli Istriani – Libera Provincia dell’Istria in Esilio, che è la principale organizzazione di esuli Istriani in Italia.

Presidente dell’associazione è il Dott. Massimiliano Lacota.

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Gli esuli in Italia, nei campi si sono trovati male. L’accoglienza non era programmata, c’era impreparazione e incapacità. Si sono ritrovate insieme migliaia di persone stipate in una grande stanza, in promiscuità.

Come se non bastasse lo strazio dell’abbandono della propria terra, i profughi istriani una volta giunti in Italia dovettero affrontare diffidenza e insulti. Numeri altissimi di esuli arrivarono in una Penisola non preparata ad accoglierli e vennero smistati nei vari campi di accoglienza. Nascosti, abbandonati e umiliati. Partiti bambini piccolissimi oppure già adulti con una valigia e la responsabilità di una famiglia. Stesso dolore, diverse sensazioni, differente futuro.

Per chi è nato negli anni ’20, l’istituzione del giorno del ricordo è arrivato tardi. Molti erano già morti, altri troppo anziani e incapaci di godere di questo risultato. Per coloro invece che sono andati via da bambini quella data ha rappresentato un obiettivo raggiunto.

Il giorno del ricordo come riconciliazione dello Stato Italiano con una parte della sua popolazione.

massimiliano lacota

Un traguardo morale arrivato, quello della memoria, che fa da contraltare a tutta una parte economica ancora non saldata.

Una vergogna e un macigno sulla serietà dello Stato italiano, che non ha ottemperato ai suoi impegni. In considerazione del fatto che gli Istriani, quando è stato il momento, hanno votato con i piedi. Dimostrando con i fatti la loro scelta di italianità. Lasciando ogni cosa.

Tutti gli Istriani si sentono Italiani, però in molti di loro alberga anche un senso di delusione e tradimento.

[E’ uno stralcio dell’intervista a Massimiliano Lacota , che potrete leggere interamente giovedì prossimo su www.distantimaunite.com]

La delusione è probabilmente l’atto più tremendo dopo l’esodo. Quella sensazione che ferisce, quel dolore di una speranza tradita e che arriva a intossicare e rendere amaro il più fiero dei sentimenti.

Gli esuli Giuliano Dalmati hanno respirato per anni odori acri e pungenti, una combinazione della malinconia, per ciò che avevano lasciato, e dell’avversione mostrata loro.

La diaspora più che vederla, la si respirava

da: Maria Peschle e il suo giardino di vetro – Piero tarticchio

Piero Tarticchio è un esule. Viene da Gallesano in Istria. E’ nato nel 1936 e oggi è testimone del doppio dramma di quegli anni. Lui che fu obbligato ad abbandonare la sua terra. Lui che vide sparire suo padre e altri parenti, condotti a morire nelle foibe.

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Mentre in Italia si festeggiava la Liberazione, noi cadevamo in un incubo. Ci fu una vera caccia a noi Italiani.

La massiccia ondata persecutoria al termine della guerra investì in pieno il Sig. Piero. Uno dei colpi più duri per un bambino, a nove anni non ancora compiuti.

Alle due di notte del 5 maggio 1945, quattro uomini fecero irruzione a casa nostra. Tre di loro erano in divisa, l’altro in borghese era l’unico che parlava italiano. Mi svegliai e li vidi entrare nella camera da letto dei miei genitori. Sembravano fantasmi. Corsi tra le braccia di mia madre. Andarono da mio padre col mitra spianato, intimandogli di seguirlo al comando. Lui chiese il motivo, gli risposero che era a causa delle tessere annonarie. Mentre io scrutavo quei quattro, e notavo ad esempio che a uno mancavano i lacci delle scarpe, mia madre piangeva.

Legarono a mio padre i polsi, con il filo di ferro, e lo spinsero col calcio del fucile fuori dalla porta.

Mentre mia madre disperatamente continuava a chiedere il perché di tutta quella violenza. L’unico dei quattro senza mitra che parlava italiano disse: “Non gridate o questi vi sparano”.

Il racconto di Piero Tarticchio non lascia pause, non c’è respiro. Esiste solo una voragine di dolore. Lo rivive attimo per attimo. Ancora e ancora, come fosse in quella casa.

Il giorno seguente l’irruzione, la milizia tornò in casa. Saccheggiarono tutto e portarono via ogni cosa. Denaro, abiti, registri di cassa. Mia madre con una forza incredibile e malgrado l’angoscia, andò a cercare papà. Saputo che era stato portato al carcere di Pisino, una fortezza a strapiombo su una foiba, iniziammo, mamma e io, ad andare tutti i giorni a trovarlo. Gli portavamo biancheria e viveri. Con papà però non potevamo avere contatti. Stava in una cella all’ultimo piano del torrione. Lo vedevamo solo attraverso le grate dalla strada, quando si affacciava.

Lì l’ho visto l’ultima volta. Aveva il volto scavato e negli occhi i segni della sofferenza, della tortura.

L’ultimo ricordo del papà, quello che resta tatuato a fuoco sul cuore di un bambino, è formato da un’immagine di uomo già consapevole della sua prossima morte.

Dopo 10 giorni, era la mattina del 26 maggio, arrivati al carcere di Pisino non vedemmo papà affacciarsi. Ci dissero che nella prigione non c’era più nessuno. Nella notte i camion avevano portato via centinaia di persone.

Mia madre non si rassegnò all’idea di perdere suo marito e con un coraggio, che ancora adesso non mi spiego, continuò a cercarlo. Si inoltrò in Jugoslavia per avere notizie. Vendette i suoi orecchini per barattarli con le informazioni. Arrivò la notizia che lo avrebbero portato a Fiume per sottoporlo a giudizio, insieme agli altri prigionieri. Solo dopo tanto tempo ho saputo che neppure uno arrivò a processo. Furono tutti infoibati.

Un racconto crudele e bruciante.

Mia mamma venne a sapere che a causa delle tante domande fatte durante la ricerca di papà, lei stessa era stata inserita nelle liste della polizia segreta. Probabilmente sarebbe stata prelevata e mandata nei campi di lavoro forzato della Jugoslavia. Non solo. Le dissero anche che le avrebbero tolto suo figlio, che lo avrebbero portato in un collegio di rieducazione comunista nel nord della Slovenia.

La narrazione del Sig. Piero adesso mi comunica lo strazio, il dolore, la paura. Quel “non avevamo scelta”.

La sera stessa decidemmo di scappare. Una fuga pericolosa, di notte, superando la linea di confine, percorrendo sentieri e viottoli di campagna, che solo i pastori conoscevano. Attraversando i reticolati, per arrivare a Pola, dove c’era la famiglia di mia madre. Con il rischio di essere intercettati dai cecchini e essere spazzati via dai loro mitra. Tirava vento di Libeccio e il pastore, nostra guida, ci disse che si stava preparando a piovere. E così fu.

Mi racconta del cammino difficile, oltre un’ora, passando sotto il fil di ferro, al buio e con una pioggia battente che forse fu la loro salvezza. Perché le guardie preferirono non uscire di vedetta rimanendo invece all’interno e all’asciutto. Riesco a sentire, mentre parla, il suo cuore da bambino che batte per l’ansia e la tensione. In quelle ore notturne, sotto l’acqua, al freddo, mentre scappa cercando di non farsi sparare addosso.

Avevamo iniziato un’odissea senza fine e necessaria. In Istria la gente spariva con l’oscurità. Ci sono state persone che non hanno dormito due notti di seguito nello stesso letto, sapendo di essere iscritte nel registro della famigerata polizia segreta dell’Ozna. Un misto di psicosi e terrore.

I racconti e i ricordi del piccolo Piero si intrecciano con le parole adulte e le letture delle pagine dei suoi libri. Immagini, emozioni di quegli anni che il signor Tarticchio rivive come si svolgessero nell’istante presente. La memoria intatta che ripercorre l’addio straziante ai nonni e i momenti della preparazione dello zaino, al cui interno c’erano pochi vestiti, Il Libro della Giungla, un piccolo carrarmato e i pochi soldi aggiunti da sua madre.

Riuscimmo ad arrivare a Pola. Rimanemmo poco temo però. Andammo via anche da lì, sempre di notte, col piroscafo per Trieste. Noi e il 98% della popolazione. Non avevamo alternative. Il comunismo di Tito aveva chiuso anche le chiese e abolito il culto religioso. Non si poteva nemmeno morire con il conforto di un prete.

Partimmo il 20 gennaio 1947, poco prima del Trattato di Parigi che ci avrebbe comunque obbligato a scegliere. Rimanere Italiani e andarcene via. Oppure essere Jugoslavi e restare sulla nostra terra.

E adesso lo sconforto. Le parole di Piero Tarticchio suonano inesorabili e hanno il sapore di una sentenza.

Partimmo. Giungemmo prima a Taranto e poi a Milano. L’accoglienza però non fu delle migliori. Anzi. Non ci fu quella solidarietà fraterna che ci aspettavamo dai nostri connazionali.

Che abbiamo fatto di male? Quando finirà tutto questo?

DA: MARIA PESCHLE E IL SUO GIARDINO DI VETRO – PIERO TARTICCHIO

Trovarono una società che non li voleva, perché considerati un peso. Una certa parte politica li rappresentava come fascisti e reazionari, per aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito. Un’ostilità nei loro confronti che si è protratta, pesando sulla storiografia e sulla cultura. E che ancora oggi in determinati ambienti prova a minimizzare e giustificare.

Così scriveva Piero Montagnani su “L’Unità” Sabato 30 novembre 1946: Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città […] impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.

Impauriti dall’alito di libertà…

Il 10 ottobre 2020 è stata inaugurata a Milano la toccante opera, realizzata da Piero Tarticchio in memoria dei Martiri delle Foibe e degli Esuli. Dopo un iter burocratico lungo dieci anni, a Piazza della Repubblica è sorto infine un luogo di riferimento per chi è sopravvissuto.

A perenne memoria dei martiri delle Foibe, degli scomparsi senza ritorno e dei 350.000 esuli dalla Venezia Giulia, dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia. Sono le parole incise alla base del monumento. La stele rappresenta un corpo con le braccia aperte in croce, adagiato nell’imbuto di una foiba che guarda al cielo. Sotto, i nomi delle città e dei territori martiri. Gorizia, Trieste, Fiume, Istria, Dalmazia.

Un piccolo pezzo di terra che diventerà la nostra terra, afferma il Sig. Piero che alla sua età vorrebbe assistere a ulteriori passi in avanti.

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Mi piacerebbe che anche noi fossimo rappresentati in Parlamento da un Senatore a Vita. E vorrei tanto che i Presidenti di Italia, Slovenia e Croazia insieme si recassero su una foiba croata, e non quella più semplice di Basovizza. E si inginocchiassero e chiedessero perdono. Allora si potrebbe parlare di vera riconciliazione.

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Magazzino 18

Dal 1943 ad oggi moltissimo è stato detto e fatto, in maniera diversa e a fasi alterne. Grazie al contributo fondamentale delle associazioni, che costituiscono il mondo dell’esodo e in particolare dall’ANVGD , che per numero e diffusione, rappresenta la maggioranza di esuli e discendenti.

La Professoressa Donatella Schürzel ne è vice Presidente vicario nazionale nonché Presidente del comitato provinciale di Roma.

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Dal 1943 a metà anni ’50 in Italia si parlava, si sapeva cosa fossero le foibe e chi fossero gli esuli. La maggior parte degli Italiani era abbastanza al corrente di quanto accaduto. Solo che poi a causa della politica internazionale, dei contatti e delle alleanze economiche, si è arrivati a un silenzio. Che è diventato sempre più forte, fino ad arrivare a essere assolutamente totale per molti anni.

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Nel processo di ricostruzione, sia storica, che della memoria, le Associazioni si accorsero che i fatti non si sapevano. E che la realtà storica non appariva sui libri di scuola.

Il corpo docente non era preparato sulla storia, in parte perché politicizzato e ideologicizzato. Grazie all’istituzione del Giorno del Ricordo nel 2004 si potè operare anche sulla cultura, con l’aiuto delle Istituzioni. E fu un grande passo avanti.

Musei, studi, convegni, incontri e dibattiti. Opere letterarie, teatrali e cinematografiche.  

Prima di Red Land. Precedentemente a Magazzino 18. Era già uscito Il cuore nel pozzo, che ebbe il merito di aprire una finestra nella mente del cittadino italiano. Destò scalpore, interesse e curiosità. Tanta gente non sapeva davvero, chi sapeva qualcosa quando lo ha visto ha ricordato e approfondito.

Il cuore nel pozzo fu girato nell’autunno del 2004 in Montenegro, poiché le autorità vietarono le riprese in Istria, dato che, a loro avviso, i contenuti non possedevano un riscontro storico. La fiction, interpretata da Leo Gullotta, Beppe Fiorello e Antonia Liskova, fu trasmessa su Rai 1 il 6 ed il 7 febbraio 2005 in due puntate. Era la prima volta che la TV di Stato italiana trasmetteva in prima serata un film che trattasse il dramma delle foibe.

Magazzino 18

Magazzino 18

Il cuore nel pozzo è stato un film che ha colpito nel segno. Come anche Magazzino 18 e Red Land. Tutti realizzati anche grazie al sostegno delle Associazioni.

La trama racconta di Carlo, figlio di Novak, un partigiano titino, che decide di ritrovare suo figlio avuto da Giulia, una donna che anni prima aveva stuprato. Nascosto in un orfanotrofio, Carlo si unisce ad altri bambini per sfuggire alla cattura dei titini. Ma la loro salvezza costerà sacrifici e tragiche separazioni.

Le musiche del film sono state composte, orchestrate e dirette dal Maestro Ennio Morricone.

Tantissimo è stato fatto e ancora c’è molto da fare. Ci sono, a tutt’oggi purtroppo, elementi che negano, riducono e giustificano.

Dover replicare a Eric Gobetti significa dover rispondere a cose offensive per l’intelligenza umana

Donatella Schürzel

[E’ uno stralcio dell’intervista a Donatella Schürzel, che potrete leggere interamente domenica prossima su www.distantimaunite.com]

Non dimentighemo

Popolazioni intere in fuga. Uno strappo dalla propria terra che, come scrive Piero Tarticchio in Nascinguerra, non fu coraggio bensì una spinta che veniva dalla disperazione. Lasciando strade conosciute, persone amiche, case, parenti e familiari in molti casi uccisi e infoibati. E l’Italia, creduta madre, svelò invece il cuore duro di una matrigna.

Quando doman, in viagio, ti rivarà sul mio paese, carezime, te prego, la cesa, el campanil,
la mia caseta. Fermite un momentin,
sora le tombe del vecio cimitero e basa una per una le lapide e le crose e dighe ai Morti, dighe
luna, te prego, che no dimentichemo. (BEPI NIDER)

Scrivo ascoltando le magnifiche e struggenti musiche scritte dal Maestro Morricone per Il cuore nel pozzo. Rivivo le parole e le immagini che mi hanno accompagnato in queste settimane.

Quanta sofferenza in quei bambini maltrattati e insultati, da coloro che dovevano essere fratelli. Quanto scempio della natura umana è stato taciuto, per così lungo tempo. Quanta ignoranza ancora regna, dettata da prese di posizione ideologiche che nulla hanno a che vedere con la storia.

Da una parte generazioni di esuli, che hanno vissuto con le loro ferite e cicatrici. Dall’altra generazioni di ragazzi cresciute senza immaginare la verità, perché da alcuni ritenuta scomoda.

Sono state settimane intense per me, un viaggio nei miei ricordi con papà, attraversando la vita di chi parlando con me, si è aperto alle emozioni. Marisa Brugna e Piero Tarticchio mi hanno indubbiamente arricchita. Red Land, nelle parole del produttore Alessandro Centenaro, e l’opera Magazzino 18 di Simone Cristicchi mi hanno per l’ennesima volta commossa e turbata. Nelle pagine social di facebook e instagram ho trovato accoglienza. Nell’intervista con il Dott. Masimiliano Lacota ho compreso la delusione, in quelle con la Professoressa Donatella Schürzel ho ascoltato la fiducia nel futuro e nell’istruzione.

Magazzino 18

C’è spazio e c’è tempo per ricomporre la storia d’Italia. Siamo fuori tempo massimo invece per rendere il doveroso rispetto a chi è morto e a chi ha subito e patito in nome di una scelta. Quella di essere Italiano.

E da italiana mi scuso, ma non sapevo. Sui miei libri non c’era scritto.

E digli ai morti, digli ti prego Che non dimentighemo (Simone Cristicchi- Magazzino 18 )

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Sabrina Villa

Per Vasco “Cambiare il mondo è quasi impossibile -Si può cambiare solo se stessi - Sembra poco ma se ci riuscissi - Faresti la rivoluzione” . Ecco, in questo lungo periodo di quarantena, molti di noi hanno dovuto imparare nuovi modi, di stare in casa, di comunicare, di esternare i propri sentimenti. Cambiare noi stessi per modificare quello che ci circonda. Tutto si è fermato, in attesa del pronti via, per riallacciare i fili, lì dove si erano interrotti. I pensieri hanno corso liberamente a sogni e desideri, riflessioni e immagini e, con la mente libera, hanno elaborato anche nuovi modi di esternazione e rappresentazione dell’attualità. Questa è la mia rubrica e io sono Sabrina Villa. Nata a Roma e innamorata della mia città. Sono un'eclettica per definizione: architettura, pittura, teatro, cucina, sport, calcio, libri. Mi appassiona tutto. E' stato così anche nel giornalismo, non c'è ambito che non abbia toccato. Ogni settore ha la sua attrattiva. Mi sono cimentata in tv, radio, carta stampata. Oggi, come al solito, mi occupo di tante cose insieme: eventi, comunicazione, organizzazione. La mente è sempre in un irriducibile movimento.

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