Ali e radici

Ali e radici

Il Luna Park. Un bar e un televisore. Un bambino. Ali e radici. Uno stadio, un razzo, il viso insanguinato e l’orbita vuota di un occhio. Una funesta notizia che si diffonde nell’aria. Il finestrino di una macchina e un pensiero tragico. Il profumo del sugo che si diffonde per le scale. Un lutto non ancora metabolizzato. “Papà poi ti porta la prossima settimana, c’è la Juve”. Una domenica mai più arrivata. Una vita sconvolta e distorta. Un cognome che urla rispetto. E per nome una bandiera.

Una storia drammaticamente nota. Il nome di quel bambino che voleva andare allo stadio con papà e mamma è Gabriele, il cognome: Paparelli. Vincenzo, suo padre, era un operaio e grande appassionato della sua squadra di calcio.

Il 28 ottobre del 1979 allo stadio Olimpico di Roma è di scena il derby. Vincenzo ha 33 anni e siede in Curva Nord, insieme a sua moglie Vanda. Sta mangiando qualche bruscolino, quando viene colpito da un razzo sparato dalla Curva Sud, da un tifoso della squadra avversaria. Vanda cerca di estrarre quel tubo di ferro dall’occhio sinistro di suo marito, ma il razzo brucia e finisce per ustionarsi una mano. Il medico che presta i primi soccorsi a Vincenzo, dichiara che nemmeno in guerra aveva visto una lesione così grave. La faccia è insanguinata e l’orbita dell’occhio sinistro vuota.

Quando suo papà muore, Gabriele ha otto anni.

Mio padre non mi ha detto come vivere. Ha vissuto e mi ha fatto osservare come lo faceva.

Clarence Budington Kelland

Dal giorno della tragedia si sono rincorsi insulti, offese e ingiurie all’indirizzo di quel nome. Vincenzo Paparelli. E se è vero che la mamma dei cretini è sempre incinta, alcune volte gli attacchi sembrano frutto di una strategia ben studiata, al solo scopo di farsi pubblicità. L’ultimo caso eclatante in ordine di tempo è arrivato da due conduttori radiofonici che, in una diretta social, si sono esibiti con frasi di questo tenore: “Chi se ne frega di Paparelli. Adesso dobbiamo ricordare come eroe uno che semplicemente perché stava li e si è ritrovato un razzo nell’occhio. E’ stato un incidente. Perché dobbiamo ricordare Paparelli? Cosa ha fatto Paparelli per questa nazione? Uno sfigato che era nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Ha vinto la Champions della sfiga!” .

Parole che hanno indignato una volta di più Gabriele Paparelli.

Non era proprio il caso. Hanno toccato il tasto sbagliato. Per cui abbiamo presentato una querela e andremo avanti con gli avvocati. Così forse ci penseranno la prossima volta. Mi auguro che non si ripeta ancora, anche perché in Italia ce ne sono di argomenti da trattare. Andare sempre a toccare una persona che non c’è più, un padre di famiglia, non è concepibile. In realtà non ero neanche convinto della querela, non me la sentivo. Mi hanno persuaso un po’ mia moglie, Federica, e un po’ l’avvocato Mignogna. Riflettendo, ho capito che non si poteva lasciare andare la questione e che agire legalmente era l’unica strada.

Questi signori non hanno mai capito quanto sia stato duro per me crescere in un simile contesto emotivo e ambientale.

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Gabriele prova a raccontarmi, tra un ricordo e un’emozione, come siano state la sua infanzia e la sua adolescenza.

Andavo a scuola e a tredici anni mi ritrovavo sul banco le scritte “10-100-1000 Paparelli”. Sono cresciuto con questo marchio che mi ha limitato molto nella vita. Ero restio anche ad ammettere chi fossi. Quando mi chiedevano il nome rispondevo semplicemente Gabriele. E se volevano sapere anche il cognome rispondevo sottovoce, quasi a non volerlo dichiarare. E puntualmente arrivavano le domande di rito: “Ma sei tu? sei parente? era tuo padre?”. Non è semplice crescere così.

No, sicuramente è complicato e penoso. Non essere un bambino o un ragazzo come gli altri, venire guardato, osservato, additato, insultato e oltraggiato. Colpevole di aver perso un genitore in modo violento.

Sono tristemente famoso. Da una parte mi fa piacere per tutto l’affetto che mi viene mostrato, però diciamo che sarebbe stato più bello essere fermato e fotografato per aver vinto lo scudetto come allenatore. Mi ritrovo a fare foto nelle situazioni più assurde. E quello che potrebbe essere divertente in realtà è anche triste. Non è una cosa bella essere riconosciuto per questo lutto. Mentre sorrido all’obiettivo, dentro la ferita è profonda. Sto sempre a petto in fuori per mio papà e ne parlo con orgoglio. Però non è una festa.

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Devo chiedere, informarmi, sapere. Però sono in imbarazzo a rivolgergli alcune interrogativi. Il pudore dei sentimenti. Gabriele mi tranquillizza, mi dice che ha dovuto fare il callo alle domande, anche se gli sarebbe piaciuto non parlare, non querelare, non stare sempre in guardia da possibili insulti e mancanze di rispetto. Avrebbe voluto solamente vivere in pace la morte di quell’uomo che era suo padre.

Papà era molto umile, un operaio fine anni ’70 che si stava costruendo un futuro, per lui e i suoi familiari. Era un grande lavoratore che amava alla follia la sua famiglia. Gli piaceva andare a pescare o andare in bicicletta e aveva una passione, una sola: la Lazio. Un trasporto talmente forte e intenso che quella domenica preferì lo stadio a tutto il resto.

La passione, lo stare vicino alla propria squadra, la gioia sui gradoni dello stadio, la condivisione con chi ha i tuoi stessi colori. L’essenza del tifo. Che ti fa spostare compleanni, rimandare ricorrenze e rinunciare a impegni. Entusiasmo e aggregazione. Una fase indomabile ed emozionante, che non si affievolisce col passare del tempo. Difficile spiegarlo a chi non la vive.

Ricordo tutto di quella giornata. Quel 28 ottobre era il compleanno di una nostra parente e c’era un pranzo, una riunione familiare. Papà verso le 10,00 vide spuntare il sole e scelse lo stadio. Dicendoci: “Voi andate e poi noi vi raggiungiamo, ma io non posso fare a meno di andare a vedere la Lazio”. Scelse lo stadio, insieme a mamma, rinunciando a una domenica in famiglia perché non poteva mancare al derby.

Ricorda ogni cosa Gabriele. La memoria è scolpita, i momenti cristallizzati.

E così riaffiorano gli sfottò tra papà Vincenzo e lo zio Angelo. La bottiglia di Whisky come scommessa tra i due. Tutte quelle piccole cose, che prima si facevano e che scandivano alcuni eventi, tipo il derby.

Ricordo come se fosse ieri. Mio padre che scendeva le scale, io che piangevo perché volevo andare insieme ai miei genitori. Ricordo il profumo del sugo, che si diffondeva per le scale.

Un giorno di festa per la famiglia Paparelli.

Noi abitavamo tutti in una stessa palazzina. C’erano miei zii, le sorelle di mio padre, i miei parenti. Ricordo ogni scalino e ogni parola: “Papà poi ti porta la prossima settimana, c’è la Juve”.

La prossima settimana… Quel 28 ottobre 1979 è diventato una tetra pagina per la storia d’Italia.

Mentre il piccolo Gabriele è a pranzo con i suoi parenti, all’Olimpico si consuma la tragedia. Commando Ultrà Curva Sud e Eagles Supporters si contrappongono sugli spalti. Alle h. 13,30 Vanda e Vincenzo siedono in Curva Nord. A 250 metri da loro un razzo cilindrico di tipo nautico, in alluminio privo di punta, di 30 centimetri per 5 di diametro, usato in mare aperto in caso d’emergenza, parte dalla Curva Sud. In realtà ne parte prima uno che finisce addosso una collinetta. Il secondo invece supera il tartan della pista d’atletica leggera e passa il rettangolo di gioco. Finisce spedito sulla Nord, in direzione del primo boccaporto lato Tribuna Monte Mario, davanti l’ingresso numero 57. Proprio dove sono i coniugi Paparelli.

Un attimo. Un baleno. Che stravolge l’esistenza. 

A casa intanto Gabriele è catapultato in una particolare situazione.

Mi sono ritrovato con un vicino di casa che mi dava delle attenzioni che non aveva mai mostrato prima. Gli altri spariti e questo signore che mi chiedeva: “Gabriele che cosa vuoi fare? vuoi andare al cinema?”.

Per distrarmi hanno fatto di tutto. Ovviamente mi sembrava strano, ma tanto fecero che andammo al Luna Park. E ricordo che a un certo punto mi era venuta sete, così mi portarono al bar. Stavo per prendere un succo di frutta ma mi trascinarono via, in fretta. Un televisore stava riportando la notizia che io non dovevo ascoltare.

A Gabriele bambino sembra tutto strano ciò che accade quel giorno. Bizzarre le attenzioni del vicino, curiosa quella gita al Luna Park. Ancor più inspiegabile l’essere fuggiti via dal bar.

Sono entrato in macchina, mi sono appoggiato al finestrino e ho detto: “Non è che è successo qualcosa a Papà?”

Il pensiero va immediatamente al suo papà, quel forte legame padre-figlio gli fa avvertire che qualcosa non va come dovrebbe. Però come poteva accettare quell’idea?

Ma no dai, con tutta quella gente allo stadio perché dovrebbe essere successo qualcosa proprio a lui? mi sono domandato subito dopo.

E invece quella percezione è purtroppo giusta. Il rapporto di Gabriele e Vincenzo, oltre la vita, fa arrivare chiara l’intuizione al piccolo, che l’irreparabile è avvenuto.

Eravamo molto legati, stavamo sempre insieme. Papà rideva sempre e aveva una risata molto particolare, tipo gatto silvestro. Eravamo una bellissima famiglia. E da quel giorno di ottobre si è sconvolta la nostra vita.

Arrivavano squilli infiniti dell’apparecchio telefonico, minacce, persone che inneggiavano al fatto che papà era morto e che erano contenti, telefonate anonime.

Mamma aveva ventinove anni ed era disperata. Ha tentato il suicidio diverse volte. La mia famiglia bella e unita all’improvviso si è disintegrata. Papà non c’era più. La mattina andavo per svegliare mamma e lei invece non si svegliava. Io dormivo da una zia, mio fratello Mauro da un’altra parte.

La signora Vanda Del Pinto, vedova di Vincenzo, non è c’è più. A giugno del 2011 Gabriele ha perso anche la mamma, dopo suo fratello Mauro a causa di una malattia. Finché è stata in vita la signora Vanda non è più passata vicino allo stadio. Per quarant’anni, dopo quel giorno, non ha visto l’Olimpico, nemmeno da lontano.

Dopo un anno dalla morte di papà, siamo stati costretti a cambiare casa e zona. Mamma non ce la faceva a stare ancora lì, tutti la guardavano e tutti la additavano. Soffriva troppo. Così ci siamo spostati a Torre Gaia, che in quel periodo era come trasferirsi in un’altra città. Di buono c’era che sembrava una specie di cassaforte. Il comprensorio era chiuso e c’erano le telecamere. Mamma si sentiva protetta e ha potuto, in questo modo, ricominciare a vivere. Purtroppo anche lì intorno spuntavano, come funghi, frasi e scritte infami che la tormentavano. “Morto un Papa…relli se ne fa un altro”. “10-100-1000 Paparelli”.

Io uscivo di casa la mattina molto presto, prima che mamma potesse restare turbata. Andavo e cancellavo ciò che era scritto sui muri della città, per non esporla ancora al dolore, per non farla rinchiudere in se stessa e in casa.

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In tutti questi anni Gabriele ha visto il lato bello degli esseri umani. Quello che si manifesta con con l’affetto e la vicinanza. Purtroppo ha però dovuto anche fare i conti con il lato brutto. Con la cattiveria che si avventa contro la morte di un ragazzo di 33 anni, marito e padre di due figli.

Non è lo stadio ad essere violento. Il mondo che giro intorno al calcio non è altro che la nostra stessa società, quella che viviamo ogni giorno. Ciò che siamo fuori, lo siamo anche dentro lo stadio. E’ uno specchio della società.

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Ali e radici

A Gabriele non è mai venuto meno l’attaccamento e la premura dei tifosi della Lazio. Ne è sommerso.

A mancarmi è stato altro. Mio padre e la mia famiglia. Mi è mancato vivere in tranquillità la morte del mio papà. Vivere il lutto nel mio intimo. Addormentarmi la sera e pensare a lui, perché lo volevo io però e non perché dovessi esserci catapultato con violenza. E invece anche ultimamente mia moglie mi vede che sto male, perché accade qualcosa e me la porto dentro tutta la giornata e poi la sera continuo a rimuginarci.

Vorrei solo poter piangere mio padre e basta. Mi sto vivendo la perdita di mamma nel privato, cosa impossibile con papà di cui ancora non sono riuscito ad elaborare il lutto. Spero un giorno di poterci arrivare.

Ogni giorno ne spunta una. E’ una battaglia senza fine. Sui social poi, dietro la tastiera, escono i leoni pieni di cattiveria, poi quando li metti davanti la realtà ti chiedono scusa. Però il danno ormai è fatto. Anche i due signori della diretta social: hanno tentato di chiedere scusa ma stavolta non ci ho voluto parlare. E’ grave voler attirare attenzione parlando di una persona morta, per come è morta poi.

“Cosa ha fatto Paparelli per la nazione?”. Niente, la risposta è che papà non ha fatto niente e nemmeno aveva questa velleità. Voleva solo passare una bella giornata allo stadio a vedere la sua Lazio.

Chi può sapere quando è giunto il momento. Non voglio vederti piangere. So che questo non è un addio.

Kite – U2

Oggi Gabriele è papà a sua volta. Di Giulia. E alla sua bambina prova a dare ali e radici.

Sono un papà molto affettuoso, legato in maniera maniacale a mia figlia. I molti insegnamenti che mi hanno dato mio padre e mia madre, che è stata una grande donna, sto cercando di trasmetterli anche a Giulia. Perché i valori e l’educazione che ricevi nella famiglia poi te li porti dietro per tutta la vita. Quindi sono molto attento e cerco di essere un papà perfetto. Ovviamente so che la perfezione non esiste ma ci provo, con la consapevolezza che essere genitore è il mestiere più difficile del mondo.

Giulia è una bambina molto intelligente, attenta. Quando le ho detto che Simone Inzaghi non era più l’allenatore della Lazio e che era passato all’Inter mi ha risposto: “i soldi Papà non sono tutto nella vita, qua noi gli volevamo tutti bene”. Detto da lei è stato spiazzante e ho dovuto spiegarle che nella vita le cose non vanno sempre come vorremmo. Per quanto mi riguarda Simone Inzaghi ha dimostrato di essere una persona con un gran cuore e non possiamo permetterci di portare rancore a chi ci ha fatto del bene.

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Passano gli anni, si succedono nomi e personaggi. Nella storia e nelle vicende private. Gabriele non rinnega, non esclude e anzi include.

Ho firmato col sangue il mio contratto a vita con la Lazio. La passione che ho per quei colori mi portano oltre la posizione in classifica o la serie di militanza. Il vincolo del tifoso con la squadra è qualcosa di enormemente più grande dei vari presidenti, giocatori e allenatori. Senza discutere il loro attaccamento.

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Io c’ho rimesso SOLO un papà.

E’ normale che viva il rapporto sentimentale con la Lazio in modo differente.

Dal nuovo matrimonio della signora Vanda arriva per Gabriele un altro fratellino. Per lui spende parole di incantevole affetto.

La pecorella nera in ogni famiglia ci deve essere. E’ giallorosso e, quando era piccolo, l’avevo presa malissimo. Adesso che è cresciuto sono contento, perché ultimamente ha solo subito. Gli ripeto: “tu una cosa sola hai sbagliato nella vita, a scegliere la squadra di calcio, te ne stai rendendo conto si?”. A parte tutto, lui è cresciuto conoscendo ogni cosa della mia storia e di quella di papà. Non esce mai fuori dalle righe, ci limitiamo al sano sfottò che è la cosa più bella che c’è qui a Roma. Cosa molto diversa è quando la presa in giro trascende e si mettono in mezzo i morti..

Parlare con Gabriele, ascoltare i suoi racconti e non avvertire un atteggiamento duro e ostile. Al contrario percepire i sorrisi e la serenità di un animo che ha sofferto in modo terribile ma che ha anche saputo ricostruirsi.

Il mio desiderio è quello che la vita continui esattamente così come sta andando. Un lavoro ce l’ho, una famiglia me la sono creata, ho vicino una bambina fantastica. Tutto quello che desideravo l’ho avuto. Se mi guardo indietro ovviamente mi mancano tante cose.

Però mio padre mi ha sempre insegnato a guardare avanti.

Ali e radici

La storia di Gabriele appartiene alla storia d’Italia, del calcio, dei tifosi, del derby della Capitale. Non solo però. Perché è anche, e forse soprattutto, il racconto di un padre e un figlio, profondamente legati da vivi, eternamente ancorati nella memoria.

Il loro è nodo stretto, che non si è smarrito nel tempo e nel silenzio. Tutto quel bene non si è dissolto, si è invece centuplicato e riversato su migliaia di persone. E’ cresciuto. Ha valicato l’ambito familiare per diventare una bandiera che sventola fiera, in segno di passione e umanità.

Il desiderio di Gabriele, che la vita continui esattamente così come sta andando, mi ha svelato la sua anima, limpida e nobile. Mi ha rivelato la sua eredità, fatta di solide radici, di un attaccamento senza riserve per la famiglia e delle grandi ali con cui va incontro alla vita.

I ricordi felici, fatti di sorrisi e condivisione. Purtroppo rattristati in maniera drammatica. Un insieme di memorie che però non sono state spazzate via dal dolore e dall’infamia. Ciò che Gabriele ha conosciuto, quello che ha appreso, fa oggi parte della valigia di valori che da uomo e da papà mostra con orgoglio al mondo. A testa alta.

Inneggiando a quel cognome, che in troppi ancora offendono.

E sventolando per nome una bandiera.

#IrriducibilmenteLibera

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Sabrina Villa

Per Vasco “Cambiare il mondo è quasi impossibile -Si può cambiare solo se stessi - Sembra poco ma se ci riuscissi - Faresti la rivoluzione” . Ecco, in questo lungo periodo di quarantena, molti di noi hanno dovuto imparare nuovi modi, di stare in casa, di comunicare, di esternare i propri sentimenti. Cambiare noi stessi per modificare quello che ci circonda. Tutto si è fermato, in attesa del pronti via, per riallacciare i fili, lì dove si erano interrotti. I pensieri hanno corso liberamente a sogni e desideri, riflessioni e immagini e, con la mente libera, hanno elaborato anche nuovi modi di esternazione e rappresentazione dell’attualità. Questa è la mia rubrica e io sono Sabrina Villa. Nata a Roma e innamorata della mia città. Sono un'eclettica per definizione: architettura, pittura, teatro, cucina, sport, calcio, libri. Mi appassiona tutto. E' stato così anche nel giornalismo, non c'è ambito che non abbia toccato. Ogni settore ha la sua attrattiva. Mi sono cimentata in tv, radio, carta stampata. Oggi, come al solito, mi occupo di tante cose insieme: eventi, comunicazione, organizzazione. La mente è sempre in un irriducibile movimento.

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