Lipari è casa nostra (anche)

Lipari è casa nostra (anche)


Lipari è un amore che sboccia dal dolore. Perché i sentimenti a volte si toccano anche quando sembrano antitetici. E’ come un elastico che tirandosi e formando un cerchio tocca gli estremi opposti e azzera le distanze. E’ aprile del 2001, papà se ne è andato poco fa senza fare in tempo a vedere il terzo scudetto su tre della Roma, sarebbe stato record di famiglia. Un record che invece ha fatto zio Marcello, con cui ho scoperto lo stadio a sette anni.

Patrizia ha perso il lavoro, Francesca mi parla di Lipari e di un Natale in cui si è fatta il bagno con i figli. Noi, che siamo ancora noi due, abbiamo bisogno di scaldarci nel tempo di un freddo che è più dentro che fuori.

Lipari
Lipari

E allora, Lipari sia: a Pasqua di quel 2001.

La prima di sette, le Eolie, dove sbarchiamo senza sentirsi mai nell’isola dell’isola. Ma, forse, subito a casa. Perché Lipari di lì a poco sarà casa.

Perché Giuseppina ringhia il suo amore per ciò che gli è caro, ma ha un cuore grande così.

Come Franco, artigiano meraviglioso, di quelli che sentiamo raccontare. L’uomo dalle classiche “mani d’oro”.

Con Stefano e Francesco, una famiglia da cui abbiamo imparato ad apprezzare la passione per le radici, per la terra in cui arriviamo in punta di piedi. Perché sentiamo di amarla e speriamo di farci amare.

Sarà casa, come sempre la prima, perché Patrizia è così: la prima deve essere quella buona.

Come fai a dirle di no. Il castello, il mare, una veranda che li guarda, ti senti al posto giusto e questo fa diventare giusto anche il momento. Che di suo non lo sarebbe del tutto.

E’ Pasqua, Lipari inizia a risvegliarsi dopo i torpori invernali che sono torpori profondi, forse eccessivi.

Un tempo che l’isola si prende, stretta nella paura dell’isolamento, del mare che sale, di Stromboli che brontola male.

E ora anche di Vulcano, che si è ingelosito e sbuffa. E preoccupa non poco.

Ogni angolo è una scoperta, dalla Civita in giù, passando per la pietra lavica creativa di Francesco e Agnese, i cannoli di Giovanni, il pane a tutte le ore di Giuseppe, i cocci artistici di Stefano, il bar di Marina Corta dove Lucio (Dalla) si fermava a suonare improvvisando mini-concerti per consumatori seriali di granite.

E poi la  Forgia Vecchia, Quattrocchi, gli odori che stordiscono di buono e che la rosticceria liparota di Liborio espande sul corso principale.

E il mare diventa gusto e il gusto pervade le Eolie. Fino da Maurizio a Vulcano – lì il gusto liparota incontra i sapori d’oriente – e ancora Maurizio, Carola e Alessio a Panarea – che sturbo per il palato quella granita pesca e malvasia – Alfredo a Salina (benedetto sia quel pane cunzato), là dove, lungo la camminata che porta al faro di Lingua, Marina Suma (la ricordate voi-noi nati negli Anni Sessanta come me?) incastona collanine nel suo banchetto che trasporta la creatività teatrale degli inverni a Napoli, in quella manuale delle estati eoliane.

Lipari è l’architettura eoliana che si scioglie nei sapori.

Tutto intorno è “pulera”, le colonne tipiche che reggono le logge delle case, bianche torride, in contrasto con il blu del cielo. Il rosso e il giallo dei fichi d’india, il nero dell’ossidiana, il grigio solare della pomice, il mare che un colore solo non ce l’ha. Non è più Pasqua, è estate. L’isola pullula e quel brulicare a volte sembra troppo.

Ma l’equilibrio lo trovi nei luoghi che ti scegli. E così le pulera sciolgono la pietra in un giardino di glicini e tavoli a tema di isole e scogli, con Eugenia (la “nostra” Enni) e Angelino a fare da padroni di casa e a donarci il loro grande cuore e una professionalità che trasforma il gusto in arte pura, dove la commistione non è azzardo, ma sperimentazione virtuosa.

E poi c’è il cuore di Lipari, quello di Stefano e Bea. Amici con cui dividere scelte, serate, vita ben oltre quella che vorrebbero toglierci e che noi fieramente ci prendiamo ogni colta che si può stare insieme.

Gaetano e Anna. E sai quanti ne scordo. Perché ormai, dopo vent’anni siamo liparoti.

Un marchio di orgoglio da condividere con Giovanni e il pesce reale, che dal suo banco finisce sulla griglia: spada, tonno, spatola, totani.

Datemi il salmoriglio e un vino freddo per stordirmi. Bianco? Eh, attenzione perché Lipari ti insegna che sul pesce (certo pesce) puoi accostare anche i rossi (certi rossi), Proprio come il parmigiano è compagno magico di alcuni sughi ispirati dal mare. L’avreste mai detto? Noi ormai più che dirlo lo facciamo.

Lipari

Poi c’è Sonia che nel mare ti ci porta. E Salvo uguale.

E Adolfo, Pippo, Pino, il mister, le escursioni di Pietro, i caffè al bar al mattino che non sono mai caffè e basta.

Lipari è cultura del Centro Studi Eoliano che difende un patrimonio secolare con passione.

E poi c’è il resto.

Ci sono gli yacht mondani in mezzo al mare che Tommaso da Baia Unci allontana dalla riva a colpi di fischio per difendere i suoi ospiti.

Mentre sulla terraferma puoi trovare principesse d’Oriente, sedute a sorseggiare un bianco freddo e mosso aggredendo un pane cunzato. Gomito a gomito con ragazzi e ragazze, magari con due guardie del corpo discrete a distanza.

Perché Lipari è anche questo, è un caffè con il presidente del Coni Malagò, che legge il Corriere dello Sport alle nove di mattina. E’ Roman Abramovich e Bill Gates e le loro sortite a terra che miracolosamente non vedi. E’ Daniele De Rossi invisibile come gli altri due. Sono Briatore e la Gregoraci visibilissimi.

E poi è anche amicizie nuove che nascono. Per noi e per i figli. Massimiliano, Nives, Giuseppe, Andrea, tanto mare, tanta condivisione, spiagge nere, birra fredda, messinese.

Tutto passa, cambia: ma tutto resta, indelebile.

E’ cuore che pulsa.

C’è un momento però, in cui l’isola diventa solo tua e di nessun altro.

Quando dall’Osservatorio cali lo sguardo su Vulcano che quasi la tocchi. Oppure quando ti immergi a Valle ’i Muria o a Vinci. Quando guardi dal mare la cave di pomice consumate dall’azzurro dell’acqua che in quel tratto di isola è più azzurra che azzurra non si può. Azzurra e Chiara, con le mani posso finalmente bere (ringraziamo l’altro Lucio).

O se da Acquacalda ti siedi davanti al mare, a sinistra ti godi il tramonto su Salina e davanti il panorama acqua-cielo che non sai dove finisce. Ma puoi immaginartelo e sceglierti il posto migliore per farlo coincidere oltre l’orizzonte.

Quando in realtà nel posto migliore già ci sei.

lipari

E lo dici oggi, vent’anni dopo, che la salita in doppia carrozzina con Maya e Davide, gemelli neonati, non devi farla più (camminano da soli, ma credetemi che all’epoca l’idea non riusciva a consolarci).

E hai provato persino a dimenticarla quella salita, tanto era faticosa, ma c’è chi ti ferma e ti dice: “ma noi vi ricordiamo e ci chiedevamo… come faranno???”.

Non sapevano che venivamo dagli aliscafi, dalle traversate da Napoli, e prima della carrozzina doppia c’erano le sdraiette a dondolo, le allattate di fortuna, il mare forza sette.

Ma noi, esploratori del Terzo Millennio, volevamo la nostra isola. E volevamo solo lei: Lipari.

P.S. Ah, la salita pesa anche senza carrozzina doppia, vent’anni dopo. Sono finiti gli alibi…

Fabio Massimo Splendore

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