A mani nude.

A mani nude.

Hanno combattuto “a mani nude” contro un nemico invisibile ma letale: il Covid.

Sono i medici di medicina generale e pediatri di libera scelta, deceduti nel corso della pandemia.

Per ognuno ci sono madri e padri, mogli e mariti rimasti vedovi, figli e figlie rimasti orfani.

Alcuni di loro si sono riuniti in un’associazione (“Medici a mani nude”), nata con l’intento di unire le forze, abbracciarsi virtualmente e sostenersi, ma anche per ottenere dallo Stato il riconoscimento del valore dell’operato dei propri familiari, affinché la loro perdita non sia stata solo un numero tra tanti.

Le loro storie rievocano sentimenti legati alla paura, alla perdita, alla mancanza di contatto. Sentimenti con cui abbiamo faticosamente convissuto durante l’emergenza sanitaria e che ora fatichiamo a scrollarci di dosso.

Il Covid non è stata una meteora passeggera. E’ stato uragano distruttivo per decine di migliaia di famiglie che, più di altre, sono state colpite dall’infezione da SARS-CoV-2.

Associazione “Medici a mani nude”

L’idea di unirci in associazione, mi racconta Cristina, nasce da Gennaro Avano, un ragazzo trentenne di Napoli che, come me, ha perso il papà, medico di medicina generale, nel 2020. Lui e la sorella, Laura, hanno creato il gruppo di cui faccio orgogliosamente parte. Siamo circa 40 famiglie e con il contributo di tutti portiamo avanti le nostre battaglie, in memoria dei nostri cari. Sono stati anni tremendi per chi, come noi, ha perso i propri genitori, figli, fratelli e sorelle impegnati in qualità di medici nel loro lavoro per difendere il Paese e contrastare la pandemia nel suo periodo più difficile.

Cristina Autore è una giornalista. Ma è soprattutto una figlia. Orfana di un padre che ha combattuto in prima linea, “a mani nude”.

Abbiamo scelto per l’associazione questo nome (“Medici a mani nude”) non a caso, ma proprio perché all’epoca non c’era nessun dispositivo di protezione personale. I medici di famiglia sono stati mandati in guerra senza armi a sconfiggere il virus. A mani nude, senza mascherine né guanti, esposti, più di altri, al rischio enorme di contagiarsi. Infatti, moltissimi, quasi 380 medici in Italia hanno pagato a duro prezzo tutto questo. Hanno pagato con la propria vita.

L’esistenza di Cristina viene sconvolta una mattina del 2020. Era il 25 marzo…

Alle 8.30 mi telefonò un dottore, fui la prima a saperlo: “Suo padre è deceduto per polmonite fulminante da covid-19. Non può venire in ospedale perché è vietato. La cremazione è obbligatoria. Mi dispiace, arrivederci”.

Parole che risuonano come un eco lontano. Eppure ancora assordante. Oggi come allora.

Per tre anni non ho mai chiesto a Cristina di parlarmi di quel giorno, di quei giorni. Il rispetto, prima di tutto. Non la notizia. Quel momento è arrivato adesso, inaspettato, naturale e forse proprio per questo “giusto”.

Ricordo, mi confida Cristina, la nostra ultima telefonata nella quale mi diceva di stare attenta. “No papà: devi stare attento tu a non contagiarti con i pazienti”. Avevo chiuso frettolosamente quel breve scambio di battute perché ero molto impegnata con il lavoro. Con il senno di poi, sarei rimasta al telefono a parlare con lui per ore e ore.

Il Governo aveva dato l’allarme e i tg trasmettevano le immagini di carovane di persone in stazione per cambiare regione. Io non l’ho fatto, sono rimasta a Roma senza spostarmi e non l’ho mai più potuto vedere. Due giorni dopo si è ammalato di covid ed è deceduto a Napoli, da solo, in un reparto di rianimazione.

Da solo.

La solitudine è stata la cifra più spietata della pandemia che ha cambiato il corso delle nostre vite a partire da quel marzo 2020. Una solitudine feroce per chi non ha potuto dire addio ai propri cari e per chi si è spento in un’isolamento disumano, eppure disgraziatamente necessario.

Ricordo che mi svegliai una mattina e presi il treno per scendere a Napoli. Puro istinto. Mia sorella ed io gli avevamo fatto recapitare a casa un regalino in occasione della festa del papà ma non aveva risposto ai nostri messaggi e alle nostre chiamate. Non era mai successo e per questo mi era sembrato strano. Il giorno dopo seppi che era stato prelevato dalla sua abitazione e portato in ambulanza da qualche parte ma non si sapeva dove. All’epoca i reparti covid erano stracolmi e non c’era posto neanche per chi era in fin di vita. Con l’ambulanza avevano girato tre ospedali prima del ricovero a Pozzuoli.

Cristina Autore, insieme alla sorella e al papà

Mi sono precipitata lì. Ma non si poteva entrare. L’ospedale era blindato e sono rimasta in attesa nel parcheggio del pronto soccorso per due notti pur di conoscere le condizioni cliniche di mio padre. I dottori non uscivano a riferire ai parenti perché non avevano possibilità di cambiare tute, guanti e mascherine (si sarebbero dovuti ri-disinfettare ma non avevano i ricambi). C’era la fila di barelle fino a fuori, così come poi c’era fila al forno crematore.

Provavano a tranquillizzarmi: “se non le diciamo niente, deve essere contenta perché vuol dire che suo padre è ancora vivo ma le dico che è gravissimo”. Due giorni dopo papà è morto.

Il buio.

Nella vita di un figlio la morte di un genitore è un faro che si spegne. Destinato a riaccendersi solo una volta elaborato il dolore, come luce-guida.

Mio padre mi ha trasmesso l’importanza del lavoro, la serietà e la professionalità che ha dimostrato fino all’ultimo non sottraendosi alle sue responsabilità. Lo amerò per sempre e resterà la persona più importante della mia vita. Mi manca tutti i giorni ma sento che mi protegge dall’alto.

Noi due ci capivamo al volo, ridevamo e scherzavamo sempre. Viaggiavamo molto. Gli sono grata per tutto ciò che mi ha dato e per quanto mi ha supportato nelle mie scelte. Era una persona genuina, buona e sempre disponibile, nonché un medico bravissimo e molto conosciuto nel quartiere Vomero a Napoli. Amava anche recitare, per hobby, in una compagnia teatrale napoletana il cui devoluto andava in indeficienza. Dopo la sua morte ho creato un indirizzo mail e ho invitato conoscenti e non a scrivere lì un pensiero rivolto a lui. Ho ricevuto oltre 1000 mail in pochi giorni. Persone che lo conoscevano, che mi hanno raccontato come papà le avesse aiutate. Altri, sconosciuti, che lo ringraziavano per il suo sacrificio. Altre lettere ancora, di 5 o 6 pagine, di colleghi, pazienti, conoscenti. Tantissimo amore, tanta riconoscenza. E, che dire, se non che sono fiera di chi era.

Ma non doveva andare a finire così. Avrebbe meritato la sua pensione.

Non doveva finire così.

Prima barriera e punto di riferimento per i tanti pazienti disorientati e in difficoltà nel periodo di massima emergenza sanitaria, sono centinaia i medici stroncati in poche ore o dopo lunga agonia da un virus contratto nel pieno esercizio delle loro funzioni.

A loro è stata dedicata una giornata nazionale della memoria del personale sanitario deceduto per il Covid. Il 25 marzo. Una giornata importante, per non dimenticare.

Io ritengo, mi confessa Cristina, che in Italia non ci sia una sufficiente cultura sulla morte. Le persone che non ci sono più diventano degli “angeli”, degli “eroi”, perdono di consistenza. E invece loro devono essere ricordati per cosa hanno fatto e anche per come se ne sono andati in questo caso. Sacrificando la propria esistenza per aiutare il nostro paese a sconfiggere questo virus che nel 2020 , e non solo, ha fatto migliaia e migliaia di vittime nel comparto sanitario italiano.

L’Associazione “Medici a mani nude” nasce anche per questo.

La nostra associazione è no profit senza alcun scopo di lucro. Abbiamo deciso di fare squadra, unirci, incontrarci da sud a nord e sorreggerci a vicenda nel dolore attraverso le nostre storie che hanno molto in comune. Tutti abbiamo perso un parente, un medico in famiglia o un pediatra di libera scelta che ha lavorato fino all’ultimo in pandemia per gli altri, mettendo in secondo piano la propria incolumità. Parliamo di lutti traumatici proprio perchè sopraggiunti all’improvviso, senza un ultimo saluto, in alcuni casi senza neanche un funerale (perchè vietato all’epoca delle normative), senza alcuna possibilità di vedere la persona cara. Raccontare la nostra testimonianza alle persone significa mantenere vivo il ricordo di questi medici eroi, molti li hanno chiamati così. Ma per noi erano papà, mamme, sorelle, fratelli in primis.

Molti di questi medici erano capofamiglia e con la loro scomparsa in molte famiglie sono sopraggiunti problemi economici.

C’è una discrepanza tra i medici ospedalieri, coperti da tutele INAIL e quelli di medicina generale e pediatri di libera scelta convenzionati con le ASL che, pur rispondendo agli inviti delle istituzioni a prestare soccorso nel corso dell’emergenza pandemica, non rientrano nella categoria di beneficiari di queste elargizioni in virtù della loro posizione contrattuale. Eppure, sono proprio i medici di medicina generale e pediatri di libera scelta a contare il più alto numero di morti in assoluto tra i medici in pandemia. Loro hanno continuato a fare visite ai pazienti malati, presso i propri studi medici e a casa delle persone contagiandosi. Non possono esistere medici eroi di serie A e di serie B. Alle Istituzioni abbiamo chiesto indennizzi ma non solo. Chiediamo che vengano riconosciuti come vittime del dovere, morti sul lavoro. Così come è stato.

Mio padre aveva 68 anni con 42 anni di servizio alle spalle ed era in età pensionabile. Ha continuato a lavorare fino all’ultimo giorno, senza sottrarsi al suo dovere e rispettando il giuramento di Ippocrate perdendo la vita. Per me era il mio papà, anzi papi come lo chiamavo. Lo Stato avrebbe dovuto proteggere queste persone che rischiavano tutti i giorni la vita ma non è riuscito a farlo. Ci aspettiamo che almeno ora, che la pandemia sembra sotto controllo, ci sia un determinante, valido e dovuto supporto da parte delle istituzioni alle famiglie. Questa battaglia la porto avanti per lui e per la sua memoria.

La memoria, i ricordi. Ciò che di più caro e più prezioso rimane di una persona che non c’è più. Le persone che abbiamo amato continuano a vivere nei nostri cuori, nei nostri gesti, nelle nostre parole, nei nostri sogni, e, come nel caso di Cristina, nelle battaglie per far sì che anche gli altri non dimentichino.

Un ricordo in cui rifugiarsi. Nei momenti in cui la malinconia offusca e annebbia cuore e mente.

Uno dei ricordi più belli è l’emozione di mio padre all’esame da giornalista professionista a Roma nel 2013. La sua commozione, le lacrime e il lungo abbraccio dopo la promozione con la lode della commissione esaminatrice composta da magistrati e giornalisti. “Lei è mia figlia”, disse orgoglioso, stringendomi forte tra le sue braccia.

E oggi in quell’abbraccio virtuale stringo anche io Cristina insieme a tutti quei figli, quelle madri, quei padri che “a mani nude” continuano a combattere per tenere accesa la fiammella della memoria.

#CaparbiamenteSognatrice

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Elisabetta Mazzeo

Elisabetta, classe 1981. Ogni 18 anni un cambiamento. Prima la Calabria, poi Roma, ora Zurigo. Domani chissà. La mia sfida quotidiana? Riuscire nell’impresa di essere contemporaneamente mamma, moglie, giornalista, scrittrice e ora anche blogger. Ore di sonno: poche. Idee: tante. Entusiasta, curiosa, caparbia, sognatrice. Scrivere è un’esigenza. Una lunga gavetta nei quotidiani e nelle tv locali, poi l'approdo come inviata di Sport Mediaset. Non ho dubbi: il mio è il mestiere più bello del mondo. Una passione prima che un lavoro. Oggi ricopro l'inedito ruolo di vicedirettore a distanza di Retesole, l’emittente che mi ha visto crescere umanamente e professionalmente. Divoro libri e due li ho anche scritti, mi nutro di storie di sport, ma non solo. Scatto e colleziono foto, mi alleno quanto basta per non sentirmi in colpa e in compenso macino chilometri armata di scarpe da ginnastica e passeggino. L'arrivo delle mie due figlie ha rimodulato le priorità della mia vita. E adesso è con loro e per loro che continuo a mettere le mie passioni in campo. #CaparbiamenteSognatrice

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