Il lato oscuro dei social network

Il lato oscuro dei social network

C’è un lato oscuro dei social che ci sfiora ogni giorno senza che ce ne accorgiamo. Vive nei gesti automatici, nei contenuti che consumiamo in silenzio, nel confronto costante con le vite altrui. C’è qualcosa di altrettanto inquietante nella naturalezza con cui lo facciamo. Come fosse un gesto neutro, senza peso, privo di conseguenze. Siamo talmente immersi nella quotidianità digitale da aver smarrito la distanza critica.

Il lato oscuro dei social network: come la rete ci controlla e ci manipola” di Serena Mazzini arriva come un colpo secco sulle spalle: ci obbliga a fermarci e a voltare lo sguardo verso quell’angolo buio che preferiamo ignorare.

L’autrice, social media strategist esperta di critica dei new media, ci accompagna con lucidità e rigore in un viaggio tra algoritmi, dinamiche di potere, dipendenze e costruzioni identitarie.

Dietro ogni click si nasconde una domanda urgente: cosa stiamo diventando?

Da anni report e studi del settore dimostrano una correlazione diretta tra l’utilizzo dei social media e l’emergere di disturbi cognitivi, mentali, alimentari e comportamentali nella popolazione. Cosa facciamo noi davanti a tutto questo? Ignoriamo. Dopo aver letto le pagine di questo libro, però, non potremo più far finta di non sapere. Dati, esempi concreti, casi di cronaca, riferimenti culturali, che ci portano ad interrogarci con ancora più consapevolezza.

Qual è il costo della costanze esposizione? E soprattutto: siamo davvero noi a scegliere cosa vedere o seguire, o stiamo solo danzando al ritmo di un algoritmo che conosce i nostri desideri meglio di noi?

Non ci sono risposte semplici. E questo forse è il messaggio più onesto. I social network non sono il male assoluto, ma nemmeno strumenti neutrali. Sono ecosistemi progettati per catturare attenzione, modellare emozioni, influenzare comportamenti. E tutto questo avviene sotto il mantello dell’intrattenimento e della connessione.

Esiste un lato oscuro che non possiamo ignorare, fatto di manipolazione emotiva, pressione sociale e dinamiche di competizione.

Serena mazzini – il lato oscuro dei social network

Quante volte ti sei sorpreso a controllare il numero di “mi piace” sotto un post che reputavi importante per poi sentirsi svuotato di fronte al silenzio degli altri?

Non è un effetto collaterale dello “stare sui social”, è parte integrante della dinamica. È la tossicità del progetto stesso.

I “mi piace”, le visualizzazioni, i commenti, diventano il metro per misurare il valore di ciò che siamo. Non importa più la nostra vera essenza. Ciò che conta è come veniamo percepiti. Ogni foto, ogni post, ogni reel diventa un piccolo investimento per conquistare l’attenzione e il gradimento degli altri utenti.

Il libro di Serena Mazzini è un invito alla consapevolezza. Non tanto per “staccarsi” dai social, quanto per imparare ad usarli con spirito critico, con un’etica personale, con una distanza sana. Ed è anche, se vogliamo, un appello alla responsabilità collettiva. Perché il modo in cui costruiamo e abitiamo questi spazi digitali dice molto di noi. E del futuro che stiamo preparando per i nostri figli.

La vertigine della connessione

Scorriamo. Tocchiamo. Pubblichiamo. Commentiamo. Scorriamo ancora. È un ritmo che abbiamo interiorizzato, un gesto meccanico che accompagna le nostre giornate come il battito del cuore. Se è vero che i social network nascono come strumenti di connessione, è altrettanto vero che oggi si sono trasformati in veri e propri ambienti esistenziali, dove si costruisce e si consuma identità, affettività, politica, lavoro, memoria.

I social non sono più (o forse non sono mai stati) semplici vetrine. Sono camere dell’eco, specchi riflessi, palcoscenici e prigioni allo stesso tempo.

L’autrice non si limita a denunciare, interroga e invita alla riflessione. Lo fa ripercorrendo la genesi dei social network, l’ascesa della figura degli influencer, l’evoluzione dell’algoritmo e dello storytelling, e la crescita esponenziale dei contenuti.

Non c’è paternalismo, né moralismo. C’è piuttosto l’invito a scegliere. A non aderire ciecamente. A non delegare l’intera narrazione di noi stessi a una manciata di immagini filtrate, ad una logica che ci vuole sempre performanti, visibili, vincenti.

Sharenting: il lato più oscuro dei social

Ma è soprattutto quando si entra nel territorio dell’infanzia che la riflessione si fa ancora più profonda. E il lato oscuro dei social network emerge in tutta la sua opacità. La luce è puntata sul fenomeno dello sharenting ovvero la pratica, sempre più diffusa, di condividere immagini, video dei propri figli sin dalla nascita (se non già dall’ecografia). Un gesto che può nascere dall’amore, certo. Dall’orgoglio. Dal desiderio di raccontare, condividere, costruire memoria. Ma che apre questioni etiche, legali, psicologiche complesse.

Chi decide l’identità digitale di un bambino? Chi ha il diritto di pubblicarne il volto, le emozioni, i momenti vulnerabili? E soprattutto: siamo sicuri di farlo per loro, o stiamo costruendo, inconsapevolmente, un riflesso della nostra immagine, un’estensione del nostro bisogno di riconoscimento e approvazione?

Lo sharenting, così come il digital parenting non è una deviazione del sistema. È il suo cuore. L’idea che tutto possa e debba diventare contenuto. Così accade che, prima ancora di poter parlare, un bambino abbia già una “traccia digitale”, un archivio pubblico di sè stesso creato da altri. Un’identità costruita per lui. Ma senza di lui.

Luci poche. Ombre tante

C’è poi un altro passaggio, tra i più disturbanti del libro, che riguarda quello che Mazzini definisce il “capitalismo della pietà”. Un concetto per cui la sofferenza, la fragilità, diventano contenuto virale, strategia di marketing, leva emotiva per campagne, brand, influencer. La narrazione del dolore, personale o altrui, non come testimonianza o denuncia, ma come valuta di scambio per ottenere empatia, visibilità, legittimazione.

La rete è piena di contenuti che utilizzano lacrime, malattie, drammi familiari o tragedie collettive per costruire attenzione. E dietro, spesso, non c’è solo spontaneità. C’è una struttura che premia ciò che scuote, che commuove, che paralizza, che cattura.

Ma quanto è etico condividere, in tempo reale, il pianto di un figlio, la diagnosi di un parente, la foto di una barella in corsia? Dov’è il confine tra raccontare e mercificare? Nell’analizzare il fenomeno la giornalista ci consegna una verità scomoda: la pietà, se usata come strumento di engagement, perde potenza, sacralità. Diventa consumo.

E allora cosa resta una volta chiuso il libro? Rimane il bisogno di rallentare, di spegnere le notifiche, di tornare a sentire il tempo come qualcosa di proprio, non scandito dalle storie (e dalle vite) altrui. Di silenzi non come vuoti da riempire, ma come spazi da abitare. La voglia di conversazioni vere, anche imperfette, anche lente. Di incontri non instagrammabili. Quelli in cui non serve un filtro per sentirsi abbastanza.

E resta, soprattutto, la consapevolezza che la tecnologia non è neutra, ma non è nemmeno una strada senza uscita. È uno specchio: riflette ciò che siamo e amplifica ciò che scegliamo di essere.

Il lato oscuro dei social esiste.

Ma lo illuminiamo, o lo rendiamo ancora più buio, con le nostre azioni, le nostre omissioni, i nostri click.

#CaparbiamenteSognatrice

Per approfondire l’argomento ti consigliamo anche la lettura di Followmania: il podcast che ti guida nel labirinto dei social network

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Elisabetta Mazzeo

Elisabetta, classe 1981. Ogni 18 anni un cambiamento. Prima la Calabria, poi Roma, ora Zurigo. Domani chissà. La mia sfida quotidiana? Riuscire nell’impresa di essere contemporaneamente mamma, moglie, giornalista, scrittrice e ora anche blogger. Ore di sonno: poche. Idee: tante. Entusiasta, curiosa, caparbia, sognatrice. Scrivere è un’esigenza. Una lunga gavetta nei quotidiani e nelle tv locali, poi l'approdo come inviata di Sport Mediaset. Non ho dubbi: il mio è il mestiere più bello del mondo. Una passione prima che un lavoro. Oggi ricopro l'inedito ruolo di vicedirettore a distanza di Retesole, l’emittente che mi ha visto crescere umanamente e professionalmente. Divoro libri e due li ho anche scritti, mi nutro di storie di sport, ma non solo. Scatto e colleziono foto, mi alleno quanto basta per non sentirmi in colpa e in compenso macino chilometri armata di scarpe da ginnastica e passeggino. L'arrivo delle mie due figlie ha rimodulato le priorità della mia vita. E adesso è con loro e per loro che continuo a mettere le mie passioni in campo. #CaparbiamenteSognatrice

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