Stasera esco

Stasera esco

Stasera esco.

Prendo la giacca di pelle, quella un po’ lisa, metto le scarpe buone, mi guardo allo specchio e mi dico che non sembro nemmeno io. E forse non lo sono davvero. Almeno stasera. Scendo le scale, tre rampe, la portineria vuota. Fuori c’è l’aria di primavera, le prime magliette leggere, la gente che fuma sul marciapiede.

Mi infilo nel locale. C’è musica, odore di alcol e capelli lavati da poco. La vedo. È lì. Ride. Balliamo. Mi sorride. Mi chiede come mi chiamo. Le dico solo: “Vieni via con me.” E lei lo fa.

Prendiamo un cane. Lo chiamiamo Nebbia. Bianco, piccolo, fastidioso. Lei ride quando le lecca il naso. Dorme ai nostri piedi. Un giorno la vedo dall’altra parte della strada. È con uno. Ride, ride come non ha mai fatto con me. Più aperta, più leggera. Prendo il telefono, la chiamo. Lei abbassa appena lo sguardo, vede il mio nome sullo schermo, poi preme il tasto laterale e torna a ridere. Come se quella chiamata fosse solo un fastidio. Come se io fossi solo rumore.

Allora rifaccio tutto, da capo.

Esco. La incontro. Le offro da bere. Le accarezzo il polso. Le sfioro i capelli. La porto via. Facciamo l’amore. Stavolta facciamo un figlio. Lo chiamiamo Andrea. Ha le sue mani e la mia fronte. Lo guardiamo dormire e in quel momento sembra tutto vero, tutto giusto.

Poi succede di nuovo.

La vedo dall’altra parte della strada. Sempre lei. Sempre lui. Ride, con la testa all’indietro, come se la vita le stesse finalmente facendo il solletico. Prendo il telefono. Lo sento vibrare in mano mentre squilla. Lei lo prende, lo guarda, il mio nome acceso in bianco sul nero. Fa scorrere il pollice, lo zittisce. Poi si piega in avanti, ride ancora. Come se io non fossi mai esistito.

Ci riprovo ancora.

Stavolta due figli: Andrea e Viola. Li accompagniamo a scuola. Mangiamo pizza sul divano. Lei mi stringe il braccio mentre guarda un film. Ma non basta. Perché arriva sempre quella scena.

La strada. Lui. Lei che ride e io che la chiamo. Lei che guarda il telefono e resta un secondo immobile, per poi capovolgerlo sul tavolino senza nemmeno toccarlo. Ride di nuovo. Non cambia niente.

Non esco da qui.

La giacca è sempre appesa allo stesso chiodo. Le scarpe non le metto da mesi. Lo specchio è un graffio opaco su una parete gialla. Le rampe di scale non esistono più. Non c’è musica. C’è un neon che sfarfalla. Un letto di ferro. Il rumore delle chiavi. E lei, che non c’è più.

Mi sveglio ogni mattina con lo stesso pensiero: oggi non la uccido. Oggi la lascio andare. Oggi non la seguo.

Non la controllo. Né urlo. Non stringo. Non faccio niente. Ma non serve a niente. Quando chiudo gli occhi, la rivivo. La riscrivo. La ricostruisco. Ma il finale è sempre lo stesso: una porta che si chiude a chiave. Una cella. Io. Libertà, adesso, è un’ipotesi. Una parola che si dice piano, come il nome di chi non può più rispondere.

Lei era viva.

Io volevo solo che restasse mia.

Ora siamo entrambi sepolti.

Lei in terra.

Io nel tempo.

Gabriele Ziantoni  #DisperatamenteMalinconico

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Gabriele Ziantoni

Giornalista per hobby, polemico per professione, speaker per necessità. Gabriele Ziantoni nasce a Marino, un piccolo paese in provincia di Roma, il 12 dicembre 1983. Solitario, testardo e vagamente intollerante, vive con una penna in mano e un foglio bianco davanti agli occhi fin da quando ne ha memoria. Dopo varie esperienze nel campo del giornalismo, soprattutto sportivo, dal 2011 affronta in maniera ondivaga il rapporto con il suo secondo amore dopo la scrittura: quello con la radio. Direttore Artistico di New Sound Level 90 FM, ha all’attivo tre libri: “Un secondo dopo l’altro” (L’Erudita, 2017), “Nonostante tutto” (L’Erudita, 2019) e “Rudi Voller. Il Tedesco Volante” (Perrone, 2020).

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