Dal burnout agli attacchi di panico: il libro verità di Gabriele Parpiglia

Dal burnout agli attacchi di panico: il libro verità di Gabriele Parpiglia

In inglese burnout significa letteralmente”bruciarsi”, “consumarsi fino a spegnersi”. Una fiamma che, dopo aver arso a lungo, si spegne lasciando cenere e oscurità. Senso di vuoto, esaurimento, perdita di energia e luce. Buio. Un luogo in cui si inciampa, ma in cui, a volte, si ritrova la forza di rialzarsi. Per Gabriele Parpiglia, giornalista e autore, il burnout è un’esperienza concreta che si è trasformata in pagina scritta e testimonianza condivisa.

Nel suo libro Sotto attacco di panico. La mia storia, il mio burnout, la mia ripartenza (Mursia, 2025) affronta senza filtri i temi del burnout e degli attacchi di panico, restituendo a chi legge la possibilità di riconoscersi e non sentirsi più solo.

Perché è proprio nel buio del fallimento che la luce della potenziale rinascita può diventare vivida. Un faro nella notte delle emozioni. Per Parpiglia la possibilità di rimettersi in cammino con una consapevolezza nuova.

Per me la parola ripartenza è sinonimo di fallimento, mi spiega. Il fallimento come ripartenza in positivo. Certo, non sei felice quando un progetto non va come speravi, quando un rapporto di lavoro si interrompe o quando una notizia, uno scoop non ha seguito. Ma con gli anni, essendo caduto tante volte, ho imparato a trasformare il fallimento in punto di partenza e non in una continua ricerca di un colpevole. Sono pronto, ancora una volta, a fallire e ripartire.

Il fallimento, dunque, come attraversamento del buio, che non spegne ma riaccende. Un atteggiamento che si riflette anche nel suo sguardo sul mondo del lavoro e sulle relazioni.

Con il tempo mi sono schermato, soprattutto nei rapporti professionali, fino a non lasciarmi più travolgere dalle emozioni. Non mi emoziono nemmeno per le notizie che dò, mi confida, anche quando si tratta di scoop importanti. Ho raccontato la vicenda di Raoul Bova, per esempio, in una maniera tale che i miei articoli sono stati acquisiti addirittura come atti dalla Procura. Sono stato il primo a dare la notizia su Stefano De Martino, così come tante altre. Ma oggi, se non vengo citato e la mia “esclusiva” non viene riconosciuta, non provo più rabbia o delusione. Nei rapporti umani, invece, la fragilità è tornata a galla con la nascita di mia nipote. Non sapevo minimamente cosa significasse un tale legame eppure adesso non esiste nulla al mondo che conti più di lei.

Dal buio delle cadute alla luce inaspettata di un legame nuovo: il libro nasce proprio da questo intreccio di ombre e spiragli ed ha le sue radici in uno dei periodi più complicati della nostra esistenza recente: la reclusione forzata seguita all’emergenza Covid.

All’inizio non volevo scrivere un libro sull’argomento. Ho iniziato a parlare di attacchi di panico nel 2020, quando c’era il Covid. Quindi, se ci pensi, questo libro ha avuto ben cinque anni di gestazione. Con il tempo mi sono reso conto che ricevevo decine di mail, messaggi diretti, WhatsApp sull’argomento: presto sono diventati centinaia. Oggi ricevo quattro, cinque mila messaggi al giorno su ogni device che possiedo. Ho capito con il passare dei mesi che stavamo affrontando il tema della malattia del millennio, che colpirà soprattutto le prossime generazioni, tra l’altro non pronte ad affrontarla. Giovani che vivono sui social e seguono chi promette: “ti faccio passare gli attacchi di panico, basta che mi segui”, salvo poi scoprire che non sono medici ma influencer. Il danno potenziale così diventa enorme. Per prevenirlo, bisognerebbe iniziare dalla scuole, introducendo l’educazione alla salute mentale.

Uno sguardo al dato: il burnout tra i giovani in Italia

I dati più recenti confermano che il fenomeno del burnout non è una questione marginale, soprattutto tra le fasce più giovani. Secondo il rapporto di Assinews (4/3/2025) quasi il 47,7 % dei giovani lavoratori risulta a rischio burnout, percentuale molto più elevata rispetto al 28,2% degli adulti. Anche nel mondo universitario emergono segnali allarmanti: un terzo degli studenti afferma di soffrire d’ansia, mentre il 27% denuncia sintomi depressivi (dati ISTAT). Questi numeri suggeriscono che il burnout agisce silenzioso e diffuso, trovando terreno fertile in chi è esposto a pressioni continue, instabilità e aspettative spesso in conflitto con le risorse personali.

La mia esigenza, continua Parpiglia, era che il libro diventasse un passaparola, che arrivasse a chi non può permettersi visite o cure, ma che attraverso queste pagine potesse trovare la forza di dire: “ho bisogno di aiuto”! Ed è successo. Questo mi gratifica tantissimo.

Una condizione comune e condivisa, quella del burnout, talvolta sussurrata. Un percorso ad ostacoli che diventa meno ripido se attraversato non da soli ma con la forza di una comunità che abbraccia. In questo senso il libro di Gabriele Parpiglia diventa proprio quella mano tesa nelle tenebre. Perché il buio può diventare meno silenzioso quando qualcuno trova il coraggio di raccontarlo: è in quel momento che diventa, infatti, voce collettiva, specchio in cui altri possono riconoscersi.

Ciò che nasce come esperienza individuale – un dolore, una caduta, una fragilità – si trasforma in legame, in possibilità di sostegno reciproco. La comunità diventa così luce: non cancella l’ombra, ma insegna che non si è isole nell’oceano. Ed è forse questo l’aspetto più potente della testimonianza di Parpiglia: il suo racconto si è fatto ponte, dando a tanti la libertà di uscire al silenzio e di alzare la mano per dire: “ci sono anch’io”!

Il libro mi ha stupito per questo: sì, lo ammetto, pensavo sin dall’inizio che tramite il passaparola si sarebbe diffuso tra chi non ha il coraggio di chiedere aiuto, ma non immaginavo così tanto. Ho ricevuto richieste da tutta Italia per presentarlo. Dal 27 in maggio in poi ho preso voli, fatto viaggi per essere presente a quanti più festival e presentazioni possibili, da nord a Sud. Non mi aspettavo un abbraccio così forte. È stata la cosa più bella.

Le presentazioni del libro non sono state semplici incontri promozionali. Si sono rivelate, spesso e volentieri, momenti di confronto autentico, spesso toccanti. In più occasioni Parpiglia ha ricordato l’episodio che lo ha segnato profondamente – l’aver ingerito per errore acido per verruche – raccontandolo senza filtri proprio per dimostrare che dal fondo si può risalire e che la vergogna può lasciare spazio alla condivisione.

Gabriele Parpiglia – giornalista e autore

Ho raccontato i miei periodi bui, l’aver toccato il fondo parlando della mia esperienza diretta, scoprendo aspetti miei intimi e personali. Ma tutto ciò era necessario per non scrivere un libro solo “per moda”, come fanno in tanti. Per riuscire nell’intento ho avuto al mio fianco Anna Rita Verardo, un’eccellenza del settore, che mi ha aiutato a dare al libro la giusta credibilità. Non sono un guru dell’argomento, ma aver lavorato con una professionista mi ha permesso di dare vita a un messaggio autentico. Non è un libro curativo, ma un libro che aiuta a identificarsi, a sentirsi meno soli in quello che si sta attraversando.

Molti incontri si sono trasformati in dialoghi corali: il microfono passava al pubblico, che portava in superficie esperienze personali di attacchi di panico. In alcune tappe la voce è arrivata anche oltre la sala, grazie a dirette streaming che hanno permesso a chi non poteva esserci fisicamente di partecipare comunque, coerentemente con lo spirito del libro, nato per essere un passaparola libero e accessibile.

Parlare di attacchi di panico e burnout non è stata quindi una scelta di tendenza per Parpiglia ma una responsabilità. E il suo racconto individuale, tappa dopo tappa, condivisione dopo condivisione, è diventato occasione di consapevolezza collettiva.

Un faro accesso sul buio del burnout, condizione psicologica spesso invisibile e sottovalutata. Un buio che non si manifesta con clamore, ma che si insinua lentamente nelle giornate, consumando energie e motivazioni fino a svuotare di significato anche i gesti più comuni. Proprio per questo parlarne, riconoscerlo e nominarlo diventa fondamentale.

Il burnout colpisce il 46% degli italiani. Se descrivi i sintomi, quasi tutti li riconoscono, ma non sempre sanno che quella condizione ha un nome. È una patologia che riguarda giovani, adulti e anche persone anziane, senza distinzione. Al momento non esiste una soluzione definitiva, se non quella di affrontare il burnout dal punto di vista psicologico, con l’aiuto di professionisti. Bisogna fare attenzione, riconoscerlo e scegliere di affrontarlo perché può essere pericoloso, generare ansia, attacchi di rabbia, depressione. Serve il supporto di chi conosce davvero la materia.

Dentro questa oscurità esistono spiragli che consentono di respirare di nuovo. Per Parpiglia, uno di questi è rappresentato dai viaggi: spostarsi, uscire dal proprio contesto, concedersi la libertà di scegliere una destinazione può diventare uno dei modi, concreti, per recuperare energia e rimettere in moto la vita. Non una fuga, ma la possibilità di guardare se stessi da un’altra prospettiva, di ritrovare leggerezza dopo il peso del buio.

I viaggi mi hanno salvato la vita. Il più bello è stato quello per andare ad assistere al concerto degli Oasis. Un’esperienza che mi ha riportato alla mia infanzia. Poi l’America e i Paesi del Nord che mi affascinano particolarmente. L’Islanda, soprattutto, dove tornerò presto e dove non mi dispiacerebbe vivere se potessi. Per me oggi viaggiare è diventata la possibilità di scegliere cosa fare. Cosa che prima non riuscivo nemmeno a immaginare. Non è una rinuncia, ma una gratificazione continua, fatta di nuove esperienze tutte da vivere.

E così, tra fallimenti trasformato in ripartenze, periodi bui attraversati e viaggi che riportano luce, Gabriele Parpiglia ci consegna un messaggio che risuona con forza nel tema del mese di Distanti ma Unite: la notte non è soltanto assenza di luce, ma un passaggio necessario, fatto di silenzi e introspezione, per imparare a riconoscere se stessi e scegliere se e come ripartire.

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Elisabetta Mazzeo

Elisabetta, classe 1981. Ogni 18 anni un cambiamento. Prima la Calabria, poi Roma, ora Zurigo. Domani chissà. La mia sfida quotidiana? Riuscire nell’impresa di essere contemporaneamente mamma, moglie, giornalista, scrittrice e ora anche blogger. Ore di sonno: poche. Idee: tante. Entusiasta, curiosa, caparbia, sognatrice. Scrivere è un’esigenza. Una lunga gavetta nei quotidiani e nelle tv locali, poi l'approdo come inviata di Sport Mediaset. Non ho dubbi: il mio è il mestiere più bello del mondo. Una passione prima che un lavoro. Oggi ricopro l'inedito ruolo di vicedirettore a distanza di Retesole, l’emittente che mi ha visto crescere umanamente e professionalmente. Divoro libri e due li ho anche scritti, mi nutro di storie di sport, ma non solo. Scatto e colleziono foto, mi alleno quanto basta per non sentirmi in colpa e in compenso macino chilometri armata di scarpe da ginnastica e passeggino. L'arrivo delle mie due figlie ha rimodulato le priorità della mia vita. E adesso è con loro e per loro che continuo a mettere le mie passioni in campo. #CaparbiamenteSognatrice

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