Scusami Zero ma “Questo mondo mi ha reso cattivo”

Scusami Zero ma “Questo mondo mi ha reso cattivo”

…e così mia madre mi mollò un ceffone.

Lo fece all’improvviso, senza alcun segnale che facesse presagire un suo possibile arrivo. Cinque dita usate a mò di frusta, tese fino al massimo della loro estensione e poi recuperate come un filo da pesca grazie a un istintivo movimento del polso.

– Non piangere – mi soffiò in faccia, facendo sibilare l’aria attraverso i denti stretti.

Non ebbi nemmeno il tempo di accarezzarmi la guancia: lo stupore e la delusione arrivarono prima del dolore. Cercai intorno frammenti di colpa: non ce ne erano. Nemmeno il più piccolo. Ero solo un bambino di tre anni, a spasso con la mamma, che si era commosso alla vista di un venditore ambulante.

– Perché piangi? –  continuò mia madre confondendomi.

La domanda era riferita alle lacrime prima o dopo lo schiaffo? Decisi di avvalermi della facoltà di non rispondere: mattinata troppo rischiosa…

– Piangi per quel ragazzo lì? – mi incalzò indicando quel ragazzone sudato.

“Sì – avrei voluto urlarle in faccia – Sì, mamma! E non perché è lontano dalla famiglia, in un paese non suo, costretto a un lavoro di merda che forse a fine giornata gli lascerà qualche spicciolo per un panino. Ma perché è invisibile, mamma, non te ne accorgi? Gira tra la folla e nessuno lo vede. Parla e nessuno gli risponde. Non ti sembra crudele, mamma? Non ti sembra ingiusto?”

Rimasi in silenzio, invece. Non dissi nulla. E fui costretto a subire anche l’inutile chiosa di mia madre: un meccanismo che avrei imparato a conoscere negli anni e da quale mi sono svincolato solo in età adulta.

– Sei troppo buono Gabriele. Devi costruirti un’armatura altrimenti soffrirai tutta la vita, fatti furbo! –

Credo sia stato quello il momento in cui il mondo ha cominciato a rendermi cattivo.

Scusami Zero…

No, forse questa strana forma di evoluzione capace di cambiarmi i connotati come nemmeno il più incredibile dei chirurghi plastici è partita qualche anno più tardi. Quando per la prima volta avvertii un chiaro e potentissimo istinto omicida.

Sono sempre stato un enorme amante dei gatti, fin da piccolissimo. Mentre i miei cugini con i quali condividevo il giardino condominiale, pieni zeppi di brufoli e testosterone, improvvisavano gare di biciclette che spesso finivano in scazzottate, io mi occupavo dei cuccioli che sfornava Birba, la micia di famiglia. Mi recavo periodicamente al negozio di caramelle del paese: lì acquistavo biberon pieni di zuccherose palline colorate che svuotato e usavo per allattare i neonati. Non vi racconto le prese in giro e le insinuazioni sui miei orientamenti sessuali…

Un giorno, però, quel burbero di mio zio, forse preoccupato dalla troppa natalità che rischiava di trasformare casa nostra in un gattile, mi intimò di sbarazzarmi degli ultimi arrivati. Potevo portarli da Barnaba: una figura mitologica paesana che da anni aveva scelto la via dell’ascetismo e viveva di quello che gli regalava la terra. Nel suo enorme terreno, che distava qualche centinaio di metri da casa mia, quei micetti avrebbero vissuto liberi e felici. In più gli avrei potuto fare visita in qualsiasi momento. Era una buona idea.

Mi dotai di una cesta di vimini, la imbottii con una vecchia coperta, ci adagiai sopra i gatti e partii accompagnato da mia zia per parlare con Barnaba. L’eremita non batté ciglio e accettò di buon grado la nostra proposta. Potevo lasciare la sporta sotto il portico e tornarmene da dove ero venuto. Avevo sei anni e pochissima conoscenza del mondo, ma lo sguardo asettico di quell’uomo non mi ispirava fiducia. Feci come mi aveva richiesto ma mi attardai all’uscio, con la scusa di accarezzare un cane legato a una staccionata. La scena che mi si parò davanti fu terribile: Barnaba, inginocchiato davanti alla cesta, con accanto una busta di plastica, aveva cominciato a uccidere i gatti spezzandogli il collo. Ne ammazzò un paio prima che riuscissi a portarglieli via.

Sì, in quel preciso istante, mentre incurante delle macchine che mi sfrecciavano a fianco correvo verso casa, ignorando le urla di mia zia che mi chiedevano di tornare indietro, proprio nel momento esatto in cui ho pensato che una coltellata in petto a Barnaba non sarebbe stata punita da nessun tribunale, ecco nel secondo in cui varcai il cancello di casa contando i gatti che mi erano rimasti, è stato in quel frangente che il mondo ha cominciato a rendermi cattivo. E a distanza di più di trent’anni non ha ancora finito.

Io e Zero calcare condividiamo un milione di cose. La più incredibile è la data di nascita: siamo nati entrambi il 12 dicembre 1983. Lui ad Arezzo, prima del trasferimento nel quartiere di San Basilio e io a Marino, piccolo paese dei Castelli Romani.

Seguo Michele da sempre, o almeno da quando Marta (la “mia” Sarah: l’amica aspirante insegnante di Zero) mi passò il link del suo blog una mattina di quindici anni fa. Da quel momento non ci siamo più lasciati. O meglio: io non l’ho più lasciato, seguendo in maniera quasi morbosa non solo i suoi lavori editoriali, i suoi post sui Social e le sue interviste in festival o trasmissioni televisive. Qualche volta, tramite amici comuni, sono anche riuscito a scambiare qualche carriera. Da queste conversazioni sporadiche e improvvisate ne uscivo avvertendo sempre la stessa sensazione: ero uno specchio. Ma di quelli deformanti, quelli delle attrazioni dei giostrai ambulanti.

Ero il riflesso perdente di quell’immagine. Ero l’immagine sfortunata di un duo, al quale sentivo di appartenere, pur ammettendo che il suo unico punto di contatto fosse una data di nascita e qualche valore nemmeno troppo definito.  

Le nostre carriere lavorative (perdonate i protagonismi) sono dimostrazione reale e tangibile di quanto vi sto raccontando: io e Michele (Zero) abbiamo viaggiato insieme a lungo, fino a perderci senza nemmeno accorgercene. Lui, Zero, pronto a spiccare il volo verso il mainstream che odia tanto quanto ama, io impegnato a frenare una caduta che dopo anni ancora non accenna a rallentare.

Come sempre mi capita di fronte a ogni suo lavoro, ho riflettuto molto dopo aver visto “Questo mondo non mi renderà cattivo”. E, Zero mi perdonerà, non è che sono proprio riuscito a trovare una soluzione al Problema. Tento di spiegarmi: qual è la strada da prendere, il bivio da imboccare, per vivere, non dico felici, ma almeno sereni e senza pensieri? Mantenere il punto, battersi per i propri diritti, rinunciare a ciò che è conveniente per noi in cambio di un successo comune? Oppure fregarsene del prossimo e procedere dritti verso il proprio obiettivo, utilizzando le persone come autobus da cui salire o scendere fino alla meta?

Forse ha ragione Sarah. Forse non è importante il giudizio che noi o gli altri diamo a una determinata azione. E’ solo il gesto a essere importante. Forse è il solo pensare di fare qualcosa per gli altri, di camminare al passo del più lento, dell’aiutare chi hai vicino senza pensare a cosa potrai guadagnarci, a essere rilevante.

Io c’ho provato. Ho cercato di tenere entrambi gli atteggiamenti: quello dell’altruista e quello dell’antisociale. Non è servito a niente. In questo baratto ho ricevuto in cambio solo un lutto enorme che ancora non riesco a gestire e una profonda solitudine.

Sono Cesare che sprofonda nella “Fossa delle Marianne”. Se qualcuno conosce il modo, si immerga e mi venga a salvare. Non so se tra qualche tempo avrò ancora la forza di chiedere aiuto.

Gabriele Ziantoni  #DisperatamenteMalinconico

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Gabriele Ziantoni

Giornalista per hobby, polemico per professione, speaker per necessità. Gabriele Ziantoni nasce a Marino, un piccolo paese in provincia di Roma, il 12 dicembre 1983. Solitario, testardo e vagamente intollerante, vive con una penna in mano e un foglio bianco davanti agli occhi fin da quando ne ha memoria. Dopo varie esperienze nel campo del giornalismo, soprattutto sportivo, dal 2011 affronta in maniera ondivaga il rapporto con il suo secondo amore dopo la scrittura: quello con la radio. Direttore Artistico di New Sound Level 90 FM, ha all’attivo tre libri: “Un secondo dopo l’altro” (L’Erudita, 2017), “Nonostante tutto” (L’Erudita, 2019) e “Rudi Voller. Il Tedesco Volante” (Perrone, 2020).

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