Risveglio cerebrale: Boris 4 e una generazione che (malgrado tutto) crede ancora nel bello

Risveglio cerebrale: Boris 4 e una generazione che (malgrado tutto) crede ancora nel bello

Ho atteso la quarta stagione di Boris per più di un decennio.

E l’ho attesa come si fa come un maestro, un messia: con la nostalgia dei tempi andati, una tenera speranza di un nuovo incontro e la totale, rassegnante certezza di una delusione. 

Ho atteso la quarta stagione di Boris per più di un decennio.

E tra le maglie larghe della rete costruita dai lustri, ho visto passare di tutto: cinque case (rigorosamente in affitto), sei o sette posti di lavoro, innumerevoli relazioni (se d’amore o d’amicizia, fa poca differenza), gatti, cani, auto, viaggi, fogli di giornale (na na na nana….).

Come spesso accade nelle storie di devozione assoluta, però, quando avevo ormai smesso di pensare alla Serie che in molte cose ha cambiato il mio modo di guardare la vita, ecco che è stata lei a trovare me. Su un divano di pelle bianca, a quasi quarant’anni, piegato su una chitarra, intento a realizzare un Re Minore Settima: la nota che dà inizio a “La mia storia tra le dita”.

A Ziantò, non sai sonà.

La voce arrivava da un punto imprecisato della redazione: con volontà goliardica più che offensiva, rimbalzò tra le scrivanie dei colleghi, facendo suonare tante vibrazioni diverse, come un sasso scagliato in un mucchio di campane. Qualcuno lavorava, qualcuno mi guardava, qualcun altro rideva, i più erano in attesa di una risposta. Che non si lasciò attendere. Che arrivò, ovviamente. Attraverso il Sol Maggiore e un Do Settima.

E’ vero che non sa sonà? Incalzò di nuovo la voce, evidentemente poco soddisfatta della replica sonora, cercando conforto nel branco.

“E’ vero – non la delusi, sorridendo – il fatto è che non me ne fotte proprio niente: suono per me. Non per gli altri”.

L’eco di quella frase deve aver attraversato il tempo e lo spazio, perché la sera stessa, disteso su un altro divano, di colore diverso, l’ho sentita riverberare in una battuta di Francesco Pannofino (il maestro Ferretti in Boris).

– E’ perché dovremmo farlo, Renè?

– Perché prima o poi, nella vita, qualcosa di bello va fatto

Eccola la mia generazione, riassunta in una manciata di parole. Eccomi, materializzato in immagini in una Tv al plasma pagata a rate, che tra poco potrebbe non servire più perché sta cambiando il modo di ricevere i canali.  

La mia è una generazione di disillusi. Peggio: è una generazione tossica, che si è drogata di sogni, telefilm e pubblicità e poi è stata costretta al rehab. La mia è una generazione che ha studiato, che è più preparata delle generazioni precedenti, eppure ha meno possibilità: reali ed economiche. Che vive alla giornata, che non può programmare, che si è ormai rassegnata ad avere figli nei minuti di recupero, quando la partita dovrebbe essere già finita.

La mia generazione, però, che crede ancora nel bello. Che se ne fotte del giudizio degli altri, che fa le cose che le piacciono (nei ritagli di tempo, è vero) solo per darsi piacere, per liberare un po’ di ossitocina nel sangue.  

E che non ci sta a questa esistenza da palcoscenico in cui tutti siamo concorrenti e giudici, in cui i like e i commenti decidono il nostro destino, in cui l’algoritmo (e riecco tornare Boris…) decide chi mandare in tendenza, con criteri completamente sbagliati e in base alle mode del momento.

In cui diventa attore chi ha imbroccato un video virale, autore chi scrive periodi di quattro righe, di una banalità sorprendente, che però sono di facile fruibilità (come se la letteratura fosse destinata a qualcuno…), chi finisce a teatro o in radio perché le sue barzellette surfano su whatsapp. Chi diventa ricco perché vende le foto dei piedi.

In cui tutti sono influencers: che, poi, se ci pensate, sta a significare che la personalità del mondo deve essere così labile…

E poi ci siamo noi.

Daniele che sogna di riempire gli stadi con la propria musica e nel frattempo aspetta che qualcuno lo noti.

Edoardo che molla l’avvocatura e si concentra sulla propria passione: la comunicazione.

Eleonora che desidera dare vita a qualcosa dal niente e intanto ottimizza le case dei ricchi che hanno soldi e vogliono tutto ma senza spenderli.

Virginia che realizza video e lotta con i debitori.

Gabriele che voleva fare lo scrittore, mentre ora archivia fatture e gestisce, sempre con maggiore noia, personaggi ego-riferiti. E si ritrova di domenica, alle sei di mattina, a spruzzare qualche riga confusa su foglio (un’impepata di cozze avrebbero detto in Boris). Perché quello è l’unico attimo della giornata in cui il mondo decide di lasciarlo in pace.

Il nostro di momento, quando arriverà?

E mentre aspetto, è possibile fermare la giostra? Voglio scendere, mi viene da vomitare.

Gabriele Ziantoni #DisperatamenteMalinconico

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Gabriele Ziantoni

Giornalista per hobby, polemico per professione, speaker per necessità. Gabriele Ziantoni nasce a Marino, un piccolo paese in provincia di Roma, il 12 dicembre 1983. Solitario, testardo e vagamente intollerante, vive con una penna in mano e un foglio bianco davanti agli occhi fin da quando ne ha memoria. Dopo varie esperienze nel campo del giornalismo, soprattutto sportivo, dal 2011 affronta in maniera ondivaga il rapporto con il suo secondo amore dopo la scrittura: quello con la radio. Direttore Artistico di New Sound Level 90 FM, ha all’attivo tre libri: “Un secondo dopo l’altro” (L’Erudita, 2017), “Nonostante tutto” (L’Erudita, 2019) e “Rudi Voller. Il Tedesco Volante” (Perrone, 2020).

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