Blatte

Blatte

Mi trasferii a Talenti nel 2004. Riuscii a pagare tutto nel giro di tre mesi. Il proprietario era un amico di mio padre e mi fece un buon prezzo, oltre a chiudere un occhio sul pagamento dilazionato.
Lavoravo ancora alle Poste come direttore, quindi stipendio più che buono e vari vantaggi annessi. Era una bella casa all’ultimo piano, aveva un terrazzo di 120 mq che si affacciava sul parco e le prime mattine mi divertivo a guardare gli invasati che correvano, facevano tai chi e incontri spirituali. Alla fine diventai anche io un invasato.

L’appartamento confinava con quello di un militare che non era sposato e non aveva figli. Il portiere, sempre in vena di pettegolezzi, mi raccontò che come unici parenti aveva la madre e una zia. Il padre non lo aveva riconosciuto e la zia non era neanche carnale, ma di secondo o terzo grado, non aveva capito.
Era un uomo silenzioso, raramente lo sentivo muoversi lì dentro, era come se non ci vivesse.

La prima e ultima vera volta in cui ci scambiai davvero più dei convenzionali “Buongiorno” e “Buonasera” arrivò un paio di estati dopo. Ero tornato dai miei cinque chilometri di corsa al parco e avevo due ore per prepararmi e andare a lavoro. Ricordo che faceva un caldo terribile e si faceva fatica a respirare: si doveva convivere con l’aria condizionata ed evitavamo di uscire durante il giorno; la sera uscivamo fuori come formiche con il formicaio pieno di acqua, veleno e pesticidi.

Me lo ritrovai sullo zerbino di casa. Statuario. Granitico. Sguardo fisso sulla porta di casa sua. I capelli brizzolati tagliati a spazzola erano ritti come spaghetti fissati dalla gelatina; la bocca era una linea sottile mordicchiata dai denti che, silenziosi e indisturbati, lavoravano dall’interno con il solo obiettivo di lasciare il segno, di imprimere con forza una traccia e lasciar fuoriuscire inchiostro rosso. Gli occhi azzurri e vitrei erano spalancati e si scollavano dalla porta di casa sua che, notavo ora, era leggermente socchiusa. Era grande e grosso e le mani erano rivolte al muro; stazionario sul mio zerbino dava le spalle alla mia porta. I piedi erano divaricati e riuscivo a percepire quanta tensione attraversava i muscoli delle sue gambe.

“Signor Corso, si sente bene?” provai a chiedere.
“Blatte” rispose inorridito. “Ci sono blatte in casa mia. È pieno e io non posso muovermi da qui. Non posso”.
Sbattei le palpebre perplesso. Giovanni Corso, militare che è stato nei peggiori teatri di guerra, ha paura delle blatte? Sì, fanno schifo e sono ripugnanti, ma mi pareva un po’ esagerato.
“Conosco qualcuno che fa disinfestazioni… Lo chiamo io, se vuole”.
E lui annuì, sempre imbalsamato sul mio zerbino.
“Ha le chiavi? Così chiudo la porta ed evitiamo che escano sul pianerottolo”.
Annuì ancora, mostrandomi il mazzo di chiavi che aveva in mano.
Mi misi davanti a lui, con sguardo eloquente gli suggerii di spostarsi e farmi entrare. E così fece. Da statuario uomo di guerra diventò un bambino molle e in difficoltà.
Lo invitai all’interno: in quel momento casa mia era più accogliente della sua.

A passi incerti entrò, guardandosi intorno, ma notavo che la coda dell’occhio era fissa su casa sua.
“Vuole un caffè?” cercai di distrarlo, mentre armeggiavo con il telefono per chiamare la disinfestazione.
Annuì e si avvicinò in cucina. Seguiva con un dito il top della penisola dove c’erano varie cianfrusaglie come barattoli con biscotti, bollette da pagare e portaoggetti. Era come se quel legame tra il suo dito e il marmo della mia cucina gli desse equilibrio.
“Maurizio? Ciao, sono Stefano. Ho un problema di blatte, cioè non io… ma il mio vicino di casa. Riusciresti a venire, per favore? Sì, è parecchio urgente… il mio vicino non può avvicinarsi a casa… Ok, grazie. Ti aspettiamo qui”.

E infatti arrivo puntualissimo, trenta minuti dopo.
“Ah, sei arrivato, grazie… Se ne stava fermo davanti la porta di casa sua bloccato come un pezzo di cemento, dovevi vederlo”.
Lasciai che i due si presentassero e offrii un caffè anche a Maurizio, prima di cominciare a lavorare.
“Signor Corso, una domanda” aggiunse Maurizio, “dopo che la deblattizzazione è avvenuta, è consigliato ritornare in casa dopo circa trentasei ore: i gel utilizzati non sono tossici, ma è meglio non rischiare”.
“Andrò in albergo” rispose lapidario l’altro.
Mi proposi di accompagnare Maurizio alla porta di Corso, mentre lui chiedeva di andare in bagno; quindi presi le chiavi del suo appartamento e ci dirigemmo fuori, io ben intenzionato a rimanere sul pianerottolo.
Indicai la porta dell’appartamento con un dito. “Quella è la casa. Queste le chiavi”.
“Bene, darò un’occhiata”.
Lo seguii con lo sguardo fino a che scomparve nell’appartamento portandosi dietro tutti gli attrezzi del mestiere.
Passarono neanche tre minuti che Maurizio riemerse. La faccia era buia e l’espressione contrariata mi fece pensare che il lavoro sarebbe stato più duro del previsto.
“Mi state prendendo per il culo? Qui non c’è niente”.
Sbattei le palpebre confuso. “In che senso?”
“Non c’è la minima traccia di blatte, ma non c’è neanche la polvere. Questo posto è completamente asettico, sembra una sala operatoria”.

Entrai allora dentro l’appartamento e mi ritrovai in un ambiente del tutto bianco: dalle pareti ai pavimenti ai mobili. Mi metteva in uno stato di profonda ansia.
“Ma che cazzo di storia è questa?” sbottai. “Ora mi sente”.
Mi scapicollai dentro casa mia e bussai alla porta del bagno talmente forte da poterla portare giù.
“Giovanni! Che storia è questa?”
Silenzio.
“GIOVANNI”
“Sfonda la porta, magari si è sentito male” suggerì Maurizio che intanto mi aveva raggiunto.
Stavo per dare una spallata quando la maniglia si mosse e la porta si aprì.

Il bagno era vuoto.

La finestra chiusa dall’interno, ma comunque sarebbe stato un suicidio perché si affacciava nel vuoto di sei piani.
“Dov’è finito? Non l’abbiamo visto uscire…” mormorai confuso.
“In altre stanze?” ipotizzò Maurizio.
Ma anche quelle erano vuote: su quel piano c’eravamo solo noi due.

Chiesi del signor Corso ai vicini nelle ore e nei giorni successivi, ma nessuno ne sapeva niente. Venimmo a sapere che la madre in realtà era morta da un paio di decadi e che non aveva alcun erede. La casa quindi venne venduta all’asta un anno e mezzo dopo, e del signor Corso non fu lasciata traccia. Come per le blatte.

#FastidiosamentePaziente

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Federica Fiordalice

Classe 1994, da sempre il suo sogno nel cassetto è scrivere libri e vivere grazie ad essi. A furia di stare con la testa tra le pagine, è finita su DmU per scrivere e provare a imitare i tanti autori che legge. Al momento ancora non ha scritto alcuna pagina, ma gli scaffali di casa sua continuano ad accumulare libri in attesa di essere letti. Scout per la vita, tra le sue passioni troviamo la corrispondenza cartacea, collezionare cartoline da tutto il mondo e la sua bignè a quattro zampe di nome Wendy. Figlia di Tosca Tassorosso e Durin, capostipite dei Nani tra le file di Tolkien. Dolce, paziente, un po’ stacanovista (a giuste dosi), perfezionista (q.b.). Maneggiare con cura: potrebbe rifilarti freddure di punto in bianco come strategia di difesa.

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