Giocare col fuoco

Gliela diedero quando era ancora un bambino.
Una fiammella, viva e leggera, che non bruciava ma scaldava. Non aveva un nome, né un suono. Solo un piccolo battito di luce che gli si sistemò nel petto. Nessuno la vedeva, eppure era reale. Talmente tanto che lui ci parlava e col tempo imparò a controllarla, a contenerla. Cambiare colore era il suo modo di rispondere.
Blu quando provava invidia. Trasparente nei giorni vuoti. Arancione quando rideva forte. Rossa, rossa intensa, quando si era innamorato.
Di lei.
Lei che gli aveva sorriso, una volta, sotto la pioggia. Che aveva visto la fiamma, senza bisogno di guardarla. Lei che poteva toccare la fiamma senza bruciarsi. Lei che godeva della fiamma, di orgasmi violenti, di piaceri talmente intensi da sembrare malsani.
C’era qualcosa di feroce nel modo in cui lo desiderava. Lo guardava come si guarda qualcosa che si vuole consumare. Ma sempre con quella distanza. Come se sapesse che la fiamma non era sua. Come se sapesse che prima o poi si sarebbe spenta.
Lui la seguiva ovunque. Non le parlava mai troppo, non voleva spaventarla. Preferiva ardere in silenzio. Ogni suo tocco lasciava tracce invisibili. La fiamma diventava più viva quando lei lo sfiorava. A volte vibrava. A volte sembrava che stesse per esplodere. Aveva provato a spegnerla, qualche volta. Di notte, quando il mondo taceva, si chiudeva nel buio e cercava di non respirare. Di lasciarla senza ossigeno. Ma lei si accucciava, piccola e testarda, e non moriva mai. Una volta si scottò il petto tentando di afferrarla con le dita. Un’altra rimase sveglio tre giorni, convinto che se l’avesse ignorata abbastanza a lungo si sarebbe spenta da sola. Non successe.
A volte credeva di amarla. Altre, era sicuro di volerla distruggere. C’era qualcosa di tossico tra loro, un equilibrio sbagliato fatto di pelle, fumo e silenzi. Si avvicinavano solo per ferirsi meglio. Ridevano. Si graffiavano. Si desideravano. Ma nessuno dei due aveva il coraggio di ammettere che stavano giocando col fuoco. Lui perché ardeva. Lei perché voleva vedere quanto poteva scottarsi senza ustionarsi davvero.
Poi arrivò un altro.
Più freddo, più sicuro.
Lei lo seguì.
E lui restò solo, col fuoco.
Non riuscì a spegnerlo. La fiamma tremava, cresceva, si arrampicava lungo il braccio. Diventò febbre. Rabbia. Cenere. E inevitabilmente morte. Avrebbe potuto lasciarla andare. Ma la custodiva da troppo tempo. Era lui, ormai.
Bruciò piano. Senza urla. Solo luce.
Fu lei a trovarlo, il giorno dopo: un mucchio di cenere al centro di una stanza.
Senza pietà lo allargò con la punta della scarpa e, poi, senza alcuna forma di rispetto, usò l’indice per scrivere: ti amo.
Chiaramente non a lui.
Lui era solo inchiostro freddo.
Strano destino per chi aveva bruciato di rosso tutta la vita.
Gabriele Ziantoni #DisperatamenteMalinconico
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